Accumulazione e riproduzione: genealogie della lotta di classe transfemminista, intersezionale, internazionale
Già nel 1970, il Manifesto di Rivolta femminile diceva “noi identifichiamo nel lavoro domestico non retribuito la prestazione che permette al capitalismo, privato e di stato, di sussistere”. Sempre negli anni Settanta, Selma James e collettivi come Lotta femminista evidenziavano la funzionalità del lavoro domestico non retribuito a L’accumulazione del capitale. La rilettura femminista di Rosa Luxemburg ha, dunque, una antica genealogia, indispensabile per una critica della economia politica del capitalismo contemporaneo.
Alcuni anni dopo, Angela Davis, rileggendo i processi di soggettivazione delle donne nere, ragionava sulle intersezioni tra genere, classe e razza nel contesto dei rapporti di produzione capitalistici. In anni più recenti, la critica femminista all’economia politica neoliberista ha messo in luce i processi di femminilizzazione del lavoro, l’intensificazione della messa a profitto della riproduzione sociale, delle facoltà relazionali, della cura e un nuovo processo di privatizzazione del carico sociale. La femminilizzazione del lavoro, ovvero quel processo per cui l’individuo
diventa una risorsa per il mercato del lavoro senza soluzione di continuità tra tempo/spazio di lavoro (con l’homeworking) e tempo/spazio personale, con la cessione e subordinazione di ciò che attiene alla dimensione personale, smaschera che è proprio il patriarcato ad essere la matrice di qualunque oppressione che oggettivizza e mercifica l’altro da se. Se la femminilizzazione del lavoro è la forma del capitalismo più avanzato, si articola e agisce in base alle più arcaiche forme di potere e dominio maschile.
Nella “società della prestazione”, tempo di vita e tempo di lavoro si sovrappongono, lo sfruttamento biopolitico dei corpi e delle relazioni rende la misura oraria necessaria ma insufficiente a comprendere l’estensione e l’intensità dell’accumulazione del capitale. Oggi, come ricorda Silvia Federici, “la ristrutturazione dell’economia globale ha modificato il lavoro riproduttivo e in particolare la divisione sessuale del lavoro e i rapporti tra donne e uomini”: patriarcato e neoliberismo hanno “allungato la giornata lavorativa domestica delle donne e riportato il lavoro domestico a casa (…) le donne sono state gli ammortizzatori della globalizzazione economica”.
Con la pandemia, il lavoro delle donne torna ancor più nelle case: non solo il tempo, ma anche lo spazio di produzione e riproduzione si sovrappongono. E sappiamo quanto sia alto il rischio che non sia riconosciuto (socialmente ed economicamente) il lavoro non esposto nello spazio pubblico. Così mentre si accentuava la retorica del lavoro agile, le donne erano costrette a una nuova casalinghitudine: un homeworking multitasking, che depositava su piattaforme saperi e relazioni, e contemporaneamente accudiva.
Le statiche europee elaborate da EIGE in relazione al periodo della pandemia registrano un aumento vertiginoso della violenza domestica (oltre il 32% in Francia, ad esempio); la presenza in prima linea contro la pandemia di lavori ampiamente femminilizzati come l’assistenza sociosanitaria (oltre il 75% donne); la alta femminilizzazione di lavori segnati da perdita occupazionale. E infatti, ad esempio, ISTAT continua a registrare un alto gap occupazionale nel nostro paese (17.8 % del 2019 e 18.3% nel 2020); nel dicembre 2020 su 100.000 posti di lavoro persi 99.000 erano di lavoratici.
I processi di intensificazione dello sfruttamento della riproduzione nella accumulazione del capitale, la femminilizzazione del lavoro, la precarietà del lavoro delle donne, l’inuguale ripartizione del lavoro di cura (le donne hanno speso mediamente 60 ore a settimane per la cura della prole contro le 36 maschili e 23 ore per il lavoro domestico contro le 15 maschili) rendono manifesta la necessità oggi della critica femminista alla economia politica e di una prospettiva materialista intersezionale per una efficace comprensione dei meccanismi attuali di accumulazione del capitale e ricostruzione di un efficace conflitto di classe dal basso.
Ed è proprio il nesso tra sfruttamento della riproduzione, dominio patriarcale e accumulazione capitalistica che ci porta a ritenere fondamentale la proposta di un reddito di autodeterminazione per tutte e tutti: un reddito di base incondizionato e universale, che renda possibile l’autodeterminazione e ripensare il lavoro come un luogo dove l’autodeterminazione si realizza liberamente, un lavoro insubordinato. Il reddito è “solo” una “riforma”, ma è anch’esso una possibile anteprima per chi immagina un futuro in cui chi lavora decide quale è l’attività necessaria da compiere anche in base a una esigenza sociale rispetto a cui ci si sente responsabili, e, dunque, riconosciute.
La rifondazione mancata: la critica femminista alla forma partito e al “marxilismo”
Oggi, dunque, la prospettiva transfemminista non è una parzialità rispetto alla lotta di classe: è la forma che la lotta di classe deve assumere se vuole confliggere efficacemente con il capitalismo contemporaneo. Mai come oggi la messa a profitto della riproduzione sociale e la femminilizzazione del lavoro riscrivono la composizione di classe; la risignificazione femminista dello sciopero politico, intersezionale e internazionale, dal lavoro produttivo e riproduttivo così come dalla norma eteropatriarcale ci indica una forma di lotta; la prospettiva materialista e intersezionale ci indica una strada concreta per la rifondazione.
Una prospettiva che tanto “marxilismo” presente ancora nel partito continua a ritenere accessoria, marginale, aggiuntiva o direttamente a rimuovere, rendendo un pessimo servizio anche al conflitto tra capitale e lavoro. Pensiamo, quindi che la prospettiva femminista e intersezionale debba essere fondativa della rifondazione comunista, sul piano teorico, politico e organizzativo. Così non è ancora e dobbiamo dircelo.
Ancora ci misuriamo con iniziative di soli compagni, con le aggiunte a posteriori nei documenti politici “della parte relativa alle donne”, con il dobbiamo mettere una compagna, con le compagne scelte dai capi maschi. Nel 1970 (oltre cinquanta anni fa) Adriana Seroni – responsabile della Commissione femminile del Pci e protagonista di un rapporto assai conflittuale con il movimento femminista – scriveva in apertura della V Conferenza delle donne comuniste: “pur riconoscendo alla lotta per l’emancipazione una sua necessità e un suo valore, non se ne ravvisa tutta l’incidenza e la portata ai fini dell’arricchimento delle nostre piattaforme, ai fini del pieno dispiegarsi della ricchezza e incisività della nostra linea […] dobbiamo cioè definitivamente superare il sistema delle precarie aggiunte a posteriori dei temi femminili alle piattaforme generali, andare concretamente a una reale unità di direzione politica”.
Tragicamente il Partito è tornato lì. Tornato, perché dal 2008 ad oggi si sono fatti passi in avanti (l’introduzione della democrazia di genere a molti livelli), ma anche enormi passi indietro, rendendo di fatto il partito sordo al conflitto di genere e depotenziando le pratiche femministe al suo interno. I compagni non si sono mai messi in discussione. Il patriarcato persiste profondamente nel partito. Carla Lonzi ci ricordava che “il marxismo-leninismo ha bisogno di equiparare i due sessi, ma la regolazione di conti tra collettivi di uomini non può che produrre una elargizione paternalistica dei propri valori alla donna”. Anche la storia di rifondazione comunista è segnata da questa regolazione di conti. Ciò ha determinato, ad esempio, una rifondazione mancata nella forma-partito: tutta l’elaborazione prodotta dalle compagne sulla critica alla forma-partito, piramidale e maschile, è rimasta lettera morta. La conferenza degli uomini proposta allo scorso congresso non si è mai fatta.
Assistiamo costantemente a dibattiti di soli compagni o in cui le compagne hanno le funzioni di coordinatrici, a mo’ di vallette del comunismo. Nelle ultime elezioni europee, le capolista donne erano la copertura di una cabina di regia in cui il pallino era detenuto da soli uomini. Nella gestione correntizia del partito le compagne sono spesso state usate come funzione, pedina, casella da riempire. Spesso ci siamo sentite femministe nonostante la nostra iscrizione al partito. I compagni non hanno smesso di praticare la “mezza militanza”, quella che non ti mette in discussione dal punto di vista personale. Così anche l’esperienza della pandemia, che pure ha sconvolto le vite di ciascuno e ciascuna, non è diventato materiale politico. Siamo stanche ma continueremo a non stare zitte.
Carla Lonzi parlava della “donne marxiste (..) di cui l’ideologia e l’attività politica hanno fatto strage” commentando un passaggio drammatico di una lettera a Leo Jogiches di Rosa Luxemburg, sulla “maledetta politica” che l’aveva allontanata dai suoi affetti: “ero quasi decisa ad abbondare “di colpo” questa maledetta politica o piuttosto questa parodia cruenta della vita politica che conduciamo (..) in cui si sacrifica l’esistenza umana sulla base della propria deficienza intellettuale”. Vogliamo fermare la strage di marxiste. Ribadire che per noi il personale è politico. Che rifiutiamo una militanza come sacrificio e senza gioia, in cui non possiamo ritrovarci tutte intere.
Proponiamo in questo congresso una rifondazione femminista anche della forma partito: dal preambolo che assume la prospettiva femminista intersezionale, alla democrazia di genere paritaria a tutti livelli, alla possibilità della co-rappresentanza sul modello delle compagne curde alla convocazione delle conferenze delle donne e degli uomini per scelta. Ribadiamo la libera organizzazione delle compagne nel partito in forme autodeterminate, scelte, in dialogo con il dentro/fuori come è stato nella pratica del Forum delle donne.
La nostra proposta politica: il partito femminista intersezionale
Oggi sono maturate importanti novità?: a) i movimenti ambientalisti chiedono di mettere profondamente in discussione il concetto di “sviluppo” e di usare la ricerca e gli studi per fare pace con la natura (vedi il caso Ilva di Taranto, la funivia di Stresa, i tanti incidenti sul lavoro, ad esempio); b) il movimento sulla pace e sulla nonviolenza, di cui molti/e di noi fanno parte, esige una reinterpretazione dei conflitti, come già? era avvenuto all’interno dello zapatismo (Vedi “Il fuoco e la parola” di Marcos). E si tratta di un movimento che ha messo anche al centro delle sue pratiche la questione migranti come grande questione politica, non solo di risarcimento da parte dei colonizzatori occidentali nei confronti del sud del mondo; c) ma soprattutto il lungo, complesso e articolato movimento delle donne, con le sue pratiche radicali e autonome, ci pone di fronte a un decisivo cambio di parametri politici e teorici, un cambio di civiltà?. Oggi il movimento femminista, dalla America latina (Argentina, Brasile, Cile, Perù Colombia) alla Turchia, all’Europa è un potente movimento internazionale. Si tratta di un soggetto storicamente oppresso che prende coscienza delle cause, delle modalità?, dei linguaggi della sua oppressione e ci pone davanti una “utopia concreta”: attraverso il nesso tra sesso (e genere, generi, orientamenti sessuali), classe, etnia, tra condizione e coscienza si può? progettare la liberazione di tutti/e gli/e oppressi/e.
A cominciare dagli e dalle invisibili, donne e uomini migranti. E pensare l’approdo alla soggettivazione politica. Il femminismo ha capito a fondo il nesso tra capitalismo e patriarcato e combatte il capitalismo anche attraverso la critica e la lotta al patriarcato. Soprattutto destrutturando il potere maschile, il sessismo, la pretesa universalistica maschile. Capitalismo e patriarcato hanno costruito la loro egemonia attraverso la divisione sessuale del lavoro, la naturalizzazione della sessualità? femminile, la separazione tra pubblico (riservato agli uomini) e privato (destinato alle donne). Il movimento operaio si e? costruito politicamente nel conflitto contro il capitalismo, ma non ha individuato nel dominio maschile un potente avversario da combattere. Sicché? le donne nella tradizione comunista sono state annesse alla rivoluzione maschile, tutt’al più? considerate come questione sociale, non come soggetti. Ci sono volute le lotte delle donne che, a partire dalla loro liberta?, hanno cercato di instaurare una liberta? per tutte e tutti, contro la colonizzazione dei corpi e la neutralizzazione delle differenze.
Oggi il dominio maschile con il nuovo capitalismo ha assunto il carattere della omologazione delle donne, della messa al lavoro delle attitudini e delle capacita? femminili in funzione della organizzazione neoliberista della società? capitalistica. Sicché? il conflitto di genere non può? essere ‘aggiunto’ al conflitto di classe, ma lo deve connotare, deve puntare a destrutturare il patriarcato che e? anche nella ‘classe’. Nella pur breve storia di Rifondazione comunista gruppi di compagne hanno provato ad attraversare criticamente il maschilismo anche attraverso riflessioni teoriche e politiche comuni. Ma al di la? delle riflessioni individuali di e tra compagni maschi, in genere le donne vengono ‘richieste’ per fare quota negli organismi dirigenti. E nemmeno sempre. Manca la consapevolezza nei gruppi dirigenti a tutti i livelli. E soprattutto manca la consapevolezza che il conflitto di genere agito dalle compagne non può? non mettere in crisi l’autosufficienza maschile. Ecco perché? il femminismo non può? che essere intersezionale; non può? essere un pezzo della rifondazione comunista. Occorre invece che sia il punto di vista da cui progettare e praticare la rifondazione comunista. E rifondazione e? discontinuità?, è rivoluzione, a condizione che tutti/e ne prendiamo coscienza.
Contro l’uso capitalistico della pandemia: il femminismo è la cura
Il tempo della pandemia che viviamo accelera quello della storia: entra nelle case, rende evidente la vulnerabilità dei corpi e del mondo che viviamo, incide nel tempo delle vite e della storia un segno periodizzante, che scandisce già nella coscienza collettiva un prima e un dopo.
E questo snodo rende evidente più che mai il conflitto insanabile tra riproduzione del capitale e riproduzione della vita, tra uso capitalistico della pandemia e necessità di affermare una alternativa di società. Le vite degli anziani «non indispensabili allo sforzo produttivo del paese» (Toti), la necessità “essenziale” di continuare a produrre e vendere «e se muore qualcuno pazienza» (Guzzini) non sono gaffes di emissari diretti o indiretti di Confindustria. Basti pensare a quanto accaduto l’11 marzo 2021 in sede di Wto, con la bocciatura della deroga sui brevetti che consente alla logica del profitto di rallentare la campagna vaccinale su scala globale.
La pandemia ha reso più evidente la contraddizione tra capitale e vita, tra logica della competizione e delle vite funzionali e cura.
Nella Ue, la faglia che la pandemia ha aperto nel “realismo neoliberista” – rendendo necessaria la sospensione delle politiche di austerità e della stigmatizzazione del debito – rischia di sfociare, se non sapremo dare forza a una alternativa, in una nuova forma di lotta di classe dall’alto. Il governo Draghi nasce proprio come garanzia per la governance europea dell’uso dei fondi del Next generation Eu per una ristrutturazione del sistema capitalistico italiano. La dicotomia e lo scollamento tra quadro istituzionale (e gli interessi che tutela) e sofferenza sociale non potrebbero essere più evidenti. I palazzi sono sempre più zona rossa. Come affermare una alternativa di società che garantisca la sanità pubblica, il diritto all’istruzione, la giustizia ambientale? In cui l’intelligenza comune che depositiamo nella rete non sia resa proprietà di poche multinazionali? Come evitare che la transizione ecologica e digitale siano funzionalizzate alla riproduzione del capitale?
È questo il momento per riafferamare un welfare universale, non familistico e non lavoristico, e un reddito universale di base per l’autodeterminazione. Lo sciopero transfemminista, intersezionale e internazionale, ha riportato in piazza le ragioni di un welfare che non sia reso funzionale alla riproduzione della società così come è o come era prima, manifestando contro ogni forma di violenza patriarcale e capitalistica. Le manifestazioni contro Erdogan e il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul ci ricordano ancora una volta come la libertà delle donne sia l’antidoto più radicale contro ogni forma di autoritarismo, neofascismo e postfascismo. Pensiamo alla mobilitazione delle donne polacche sull’aborto e al conflitto che hanno aperto nel cuore dell’Europa in continuità con la mobilitazione delle donne argentine e la potenza del movimento femminista in America latina. Pensiamo al piano contro la violenza maschile elaborato da Non una di meno in Italia o alla huelga femminista in Spagna. O ancora alla resistenza e alla creatività “ginealogica” delle donne curde e della corappresentanza. Il femminismo per il 99% (Arruzza, Bhattacharya, Fraser), a partire dalla dimensione internazionale dello sciopero transfemminista, ci riporta alla possibilità concreta di una alternativa al contempo radicale e di massa: un transfemminismo anticapitalista, antirazzista, ambientalista, nuova pratica della lotta di classe e distante dal femminismo liberale delle pari opportunità di dominio, dal femminismo dell’1 per cento. LA marea femminista oggi può essere il perno di una lotta di classe internazionale, della dicotomia palazzi/società che ha preso forma nel sistema politico italiano.
Dobbiamo farci forza politica se vogliamo portare la storia su un altro piano. È difficile immaginare il futuro mentre i corpi sono stati rinchiusi e distanti, e tuttora sono ridotti a icona su uno schermo. Ma siamo convinte che per dare corpo e rifondare un’alternativa, servano pensiero, pratiche e creatività politica femminista: una cura possibile alla rassegnazione, una genealogia del futuro senza cui non è possibile immaginare una alternativa all’uso capitalistico della pandemia. La crisi pandemica e sociale ha reso ancora più evidente la politicità del prendersi cura, la centralità del lavoro di riproduzione sociale. Per trasformare le case in cui stiamo impazzendo in casematte liberate occorre la radicalità che si fa marea del femminismo, servono immaginazione e creatività politica: che ci connettiamo e riconosciamo a prescindere dalle etichette maschili con cui siamo spesso identificate. Desideriamo prenderci cura di dare forza e corpo a una alternativa: «questa è la posizione del differente che vuole operare un mutamento globale della civiltà che l’ha recluso».
Valeria Allocati, Imma Barbarossa, Lucietta Bellomo, Claudia Candeloro, Eleonora Forenza, Giada Galletta, Mara Ghidorzi, Chiara Marzocchi, Maria Lucia Rollo, Maria Letizia Ruello, Francesca Sparacino, Sara Spera, Arianna Ussi, Lia Valentini