“… Se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più « dirigente », ma unicamente «dominante», detentrice della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano ecc. La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. (A. Gramsci)
Dal nostro ultimo congresso la situazione internazionale è mutata profondamente. Alle diverse espressioni della crisi del capitalismo e della globalizzazione, se n’è aggiunta una senza precedenti: la crisi sanitaria, come conseguenza della pandemia globale del Covid-19. Faremmo un grave errore se pensassimo che la crisi sia il risultato della pandemia di coronavirus: già da prima, tutti gli indicatori avvertivano dell’approssimarsi di una crisi, che il COVID-19 fa solo precipitare e generalizzare.
La fase politica internazionale è caratterizzata da uno scontro aperto tra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese, e tra Stati Uniti e Russia, individuati come “minacce strategiche”. Continua la crisi del neoliberismo, con il ristagno della domanda interna sia nei centri, che nelle periferie dell’economia globale, aggravato dalla pandemia; il relativo declino dell’egemonia dell’imperialismo statunitense e del dollaro (che gode ancora del privilegio di essere la principale valuta delle transazioni internazionali) e l’apparizione delle “monete digitali”; continua l’ aggressività degli Stati Uniti per riaffermare il proprio dominio e contrastare il passaggio verso Est dell’economia planetaria; è in corso il ridisegno degli equilibri globali, con la ristrutturazione del mondo per aree di influenza geopolitiche e l’emersione di altri poli (BRICS), nonostante le loro importanti differenze economiche, politiche, militari.
Contro i disegni unipolari degli Stati Uniti, il multilaterialismo è positivo e va sostenuto (anche attraverso l’azione dei BRICS). Ma questo polo, nel suo insieme, non propone una diversa idea di modello economico e sociale su scala globale. Non è questo l’obiettivo del nazionalismo russo di Putin, nè del protagonismo diplomatico ed economico del governo cinese. Non c’è nessun “campo” progressivo o tantomeno socialista, che rimetta in discussione le logiche del dominio neo-liberiste.
Questa competizione non è solo tesa a modificare le ragioni di scambio tra Paesi, ma si gioca anche sull’estensione delle aree assoggettate a politiche neo-imperialiste in altre parti del mondo mentre, allo stesso tempo, in diversi Paesi vi sono tentativi di costruzione di esperienze socialiste, con caratteristiche differenziate e i cui caratteri è importante approfondire.
Le politiche interne di Biden, che alludono a un disegno neo-keynesiano, si infrangono su una politica internazionale che rilancia la sfida economica e la superiorità militare, uscendo dall’autoreferenzialità praticata dall’amministrazione Trump e cercando di incamerare l’Unione Europea nel proprio blocco.
Al declino relativo del proprio ruolo egemonico, gli Stati Uniti hanno finora risposto con la forza militare e con l’espansionismo della NATO in Europa orientale in funzione anti-russa. Al recente vertice di Bruxelles (giugno 2021), la NATO ha ribadito la decisione presa al vertice di Bucarest del 2008 sull’entrata dell’Ucraina nell’Alleanza, con il Piano d’azione per l’adesione (MAP), con gravi rischi di approfondire il conflitto contro le auto-proclamate repubbliche indipendenti in Doneck e Lugansk. La NATO si espande anche in America Latina con l’ingresso della Colombia come “socio globale”.
La strategia “NATO 2030” conferma un’alleanza di guerra che serve gli interessi del complesso militare-industriale, e non dei popoli, che in nessun modo garantirà la sicurezza.
Una delle grandi debolezze della Cina deriva dalla necessità di soddisfare le proprie esigenze commerciali, in particolare quelle energetiche, via mare: ciò ha da tempo trasformato le acque adiacenti alla Cina, in particolare il Mar Cinese Meridionale, nell’epicentro del conflitto globale del XXI secolo.
Il preteso dominio unipolare occidentale si contrappone aggressivamente alla Cina, che rifiuta il ruolo di puro mercato, con la crescita vigorosa della sua capacità produttiva e tecnologica, l’offensiva attorno alla Nuova via della seta” (One Belt, One Road) e la “diplomazia dei vaccini”. La “Dottrina del dominio permanente” (DDP) lanciata nel 1992, che non stabiliva chiaramente quali sarebbero stati i rivali della potenza imperialista una volta eclissato il mondo bipolare, ha lasciato il posto alla “teoria del caos costruttivo” durante l’amministrazione di George W. Bush, con cui Washington ha cercato di affermare la sua egemonia dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Già allora, era stata enunciata la necessità di “accerchiare” la Cina.
Ma la crisi provocata dalla diffusione della pandemia ha messo in discussione i principi ideologici del capitalismo, ha indebolito il potere degli USA e la loro capacità di egemonia sul resto del pianeta. Quasi nessuno Stato vede negli Stati Uniti un riferimento per le misure da prendere per affrontare l’emergenza, nè si è rivolto a loro per ottenere aiuti economici o sanitari, come in altri tempi. Viceversa, decine di Paesi si sono rivolti alla Cina, che appare come un esempio di come superare la crisi sanitaria. La stessa Italia ha chiesto aiuto alla Russia e a Cuba.
Crescono le tensioni fra le potenze, insieme ai conflitti “commerciali” sempre più acuti, così come la competizione per garantirsi accesso a risorse e mercati, con l’esplodere di nuove guerre e conflitti, più o meno di “bassa intensità”. La fase mondiale è quindi segnata dal rilancio di una logica da guerra fredda, sia sul terreno economico, che su quello politico-militare, dall’instabilità, dall’approfondimento della concorrenza, dalla crescente tendenza alla guerra. Il rischio che la guerra “a pezzi” (come ricordato anche da Papa Bergoglio) diventi “organica” è una tragica e concreta possibilità.
D’altra parte, la pandemia ha squadernato le contraddizioni del modello neo-liberista, che ha mercantilizzato i bisogni urgenti delle popolazioni. Non mancano le risorse e i mezzi per soddisfare i bisogni sociali e preservare il pianeta, ma questo sistema è incapace di utilizzarli a beneficio della maggioranza della società.
Lo Stato di eccezione planetario
La pandemia ha accentuato una tendenza già in atto, ma già eravamo immersi in uno Stato di eccezione planetaria, con il drastico restringimento degli spazi democratici la crisi sociale irrompe nella politica nelle società diseguali e insicure del neoliberismo, ma con rapporti di forza globali sfavorevoli alle forze comuniste e di trasformazione.
Negli ultimi quattro anni la minaccia reazionaria si è diffusa in tutto il mondo: è sempre più chiara la incompatibilità tra capitalismo neoliberista e democrazia, con un preoccupante risorgere del pericolo fascista. Non si tratta solo di esperienze geograficamente lontane come quelle degli Stati Uniti, del Brasile o delle Filippine. Anche nell’Unione Europea ci sono già governi esplicitamente autoritari, come in Ungheria o in Polonia, e formazioni di estrema destra fascista hanno un preoccupante consenso, come in Francia o in Italia.
Oggi, la globalizzazione neo-liberista ha cambiato profondamente le sue antiche caratteristiche di un mondo egemonizzato dall’occidente ed unificato dal mercato. Siamo immersi in una gigantesca transizione verso un Nuovo Ordine Mondiale, con una ristrutturazione del capitale a comando oligarchico su scala globale. Questo comando ha le caratteristiche del “cesarismo-populismo tecnocratico”.
Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) nelle sue prospettive economiche per il 2021 ha evidenziato gli effetti di una recessione più grave di quella del 2009 ed il rischio di crollo del sistema. Lo stesso FMI, insieme alla Segretaria di Stato al tesoro USA Janet Yellen, tra gli altri, raccomandano un maggior prelievo fiscale ai ceti più abbienti, per trovare le risorse necessarie ad affrontare la crisi.
Nella fase post-pandemia, le politiche di austerità sono sostituite dall’intervento di spesa pubblica, non omogeneo nei vari Paesi, mentre si riorganizzano le catene globali della fornitura, che si accorciano e si fanno più spesse.
Allo stesso tempo, assistiamo a una maggiore concentrazione e centralizzazione del capitale e della ricchezza attraverso la distruzione di forze produttive e intensificando lo sfruttamento delle lavoratrici dei lavoratori, per recuperare la caduta del saggio di profitto. Nei primi tre mesi di quest’anno le fusioni fra imprese nel mondo hanno mosso circa 1.300 miliardi di dollari, cifra record degli utimi quarant’anni.
Lungi dal favorire politiche di cooperazione tra Stati, la pandemia ha acuito la concorrenza intercapitalista per guadagnare nuovi mercati di sbocco alle produzioni, così come la concorrenza tra territori per attrarre capitali. Il neoliberismo ridefinisce il ruolo dello Stato, anche attraverso la ragnatela planetaria dei trattati (dapprima TTIP, CETA, TISA… e, ultimo in ordine di tempo, il Trattato di libero commercio tra la UE ed il Mercosur): sono trattati disegnati dalle imprese multinazionali per garantire la remunerazione del capitale (ponendo in secondo piano le stesse regole del WTO), attraverso la privatizzazione dei servizi pubblici, la deregolamentazione dei diritti del lavoro e degli standard ambientali.
In questo quadro, è importante approfondire l’analisi e le relazioni anche con il continente africano, in cui contemporaneamente agiscono spinte neocoloniali, fondamentalismi e crescita di società civile organizzata che non si rassegna ad un destino di precarietà, oppressione o migrazione.
Corsa agli armamenti
L’80,4% della produzione globale di armi e sistemi d’arma è controllata da multinazionali di bandiera del blocco euro-atlantico e dei Paesi che con questo hanno accordi strategici. Russia e Cina si contendono il rimanente 19,6%. Le vendite complessive (quindi non solo le esportazioni) rivelano implicitamente anche l’entità del riarmo interno, oltre alla concreta minaccia verso l’esterno, nonché il ruolo economico trainante della corsa agli armamenti. Le multinazionali occidentali coinvolgono direttamente nella propria filiera industriale militare decine di Paesi in ogni continente.
Questa internazionalizzazione della filiera bellica ha sostanzialmente tre obiettivi: assicurarsi quote di mercato, veicolare accordi strategici, stabilire alleanze militari.
In questo quadro si muove il pesante riarmo europeo dominato dall’asse franco-tedesco, mentre il dibattito sulla così detta “Autonomia strategica” si sviluppa attorno alle posizioni divergenti di due Paesi: la Francia (con un budget militare che si avvicina a quello russo) si propone come guida e piattaforma di proiezione dello scomposto neocolonialismo europeo, mentre la Germania intende mantenere un rapporto di internità strumentale nella NATO.
L’Italia rilancia il suo atlantismo appoggiando da un lato la posizione della Germania e dall’altro stringendo importanti accordi industriali/militari con la Francia (comprese missioni e basi in Mali e Niger), e cercando di riacquisire un ruolo strategico in Libia dove si è espansa la Turchia di Erdogan. In tali aree sarà dislocato il contingente militare italiano precedentemente impegnato in Afghanistan, dove l’ennesima missione militare ha lasciato il Paese nelle mani di una nuova alleanza fondamentalista, in presenza di circa 16.000 mercenari (contractors).
Il nostro Paese (o meglio il complesso militare-industriale italiano) ha messo a sistema la professionalizzazione delle FF.AA. e la loro trasformazione in un corpo di spedizione, la conversione di Finmeccanica (oggi Leonardo) in un asset dell’hi-tech militare globale e la presenza di basi strategiche statunitensi sul proprio territorio, per aggiudicarsi la “terza posizione” nella compagine militare-industriale europea. Proiezione di forza oltre confine e industria bellica sono così diventati i capisaldi della trentennale politica estera belligerante dell’Italia, mentre il ministero della Difesa abbandona alla loro sorte migliaia di soldati colpiti da gravi patologie contratte a causa dell’esposizione all’uranio impoverito in Iraq e nei Balcani.
L’intero complesso militare-industriale è uno dei principali inquinatori globali.
Di conseguenza, la militarizzazione, i conflitti per l’accesso alle risorse naturali e il cambiamento climatico hanno impatti devastanti sulle condizioni di vita, soprattutto nel Sud del mondo. Entro il 2050, saranno circa 200 milioni i rifugiati climatici alla ricerca di nuovi luoghi più abitabili in cui vivere. Nel suo rapporto “NATO 2030”, ipocritamente la NATO definisce l’aumento del numero di rifugiati climatici come una minaccia da cui “proteggersi militarmente”.
Il nostro Paese si pone inoltre come avamposto di una possibile guerra termonucleare partecipando al programma di Nuclear Sharing della NATO, ossia ospitando decine di testate nucleari presso le basi di Ghedi ed Aviano e dotandosi degli F35 da impiegare nel bombardamento nucleare.
In un mondo multipolare l’Italia continua ad essere una servitù militare degli Stati Uniti: la battaglia per esigere la rimozione degli ordigni nucleari statunitensi e l’uscita dell’Italia dalla Nato diventa quindi centrale per una ricollocazione strategica del nostro Paese all’insegna della neutralità, della distensione, del disarmo e della cooperazione.
Il socialismo del XXI secolo
La prospettiva del socialismo del XXI secolo è per noi l’alternativa alla barbarie con l’esplosione di razzismi e xenofobia, la strage di migranti che si continua a consumare nel Mediterraneo, il dilagare dei conflitti e delle aggressioni armate.
E’ nostro compito lavorare per il rilancio dei movimenti contro la guerra e per la pace, per la drastica riduzione delle spese militari, il disarmo e la riconversione dell’industria bellica, l’uscita dalla Nato, contro i Trattati di Libero Commercio. Riaffermiamo la solidarietà internazionalista con i popoli in lotta per la propria liberazione: con il popolo curdo, per la rimozione del PKK dalla lista UE delle organizzazioni terroriste e la liberazione del suo presidente Ocalan (alle cui proposte sull’autogoverno ed il confederalismo democratico guardiamo con attenzione), mentre rinnoviamo la nostra solidarietà con l’ HDP; con il popolo palestinese contro l’occupazione, per il riconoscimento dello Stato di Palestina e contro gli accordi Italia-Israele per la liberazione di Marwan Barghouti e delle migliaia di prigionieri politici, (tra cui 300 tra bambini e minori) rinchiusi nelle carceri israeliane; con il popolo saharawi per la sua autodeterminazione e la fine del conflitto con la potenza occupante del Marocco; contro il bloqueo a Cuba per l’assegnazione del Premio Nobel alla brigata medica cubana “Henry Reeve”; a fianco del Venezuela bolivariano contro il quale è in atto la guerra di quarta generazione da parte dell’imperialismo statunitense e della UE; a sostegno della mobilitazione del popolo Colombiano repressa con ferocia omicida, in un silenzio complice che copre le nefandezze del socio globale NATO; per la libertà di Julian Assange e di Patrick Zaki.
Ci battiamo contro l’Europa di Frontex e dell’Esercito europeo, per un diritto di asilo europeo, contro gli accordi con la Libia e la Turchia che condannano alla morte e alla tortura milioni di donne e uomini. Col pretesto del contrasto alle migrazioni considerate illegali, Ue e Italia continuano a stringere accordi che in cambio di commesse militari legittimano regimi autoritari nel Sahel come nel Medio Oriente e nei Paesi del Golfo. Questo sta rendendo inesigibile il diritto d’asilo.
Oltre la solidarietà, siamo impegnati a rafforzare gli spazi di riflessione e costruzione, per la costruzione di un’agenda comune con le sinistre sia dell’ Europa, che di altri continenti (in particolare con il Foro di Sao Paulo in America Latina) per essere all’altezza delle sfide dell’oggi.
A partire dall’Europa, la nostra priorità è quella di una battaglia politica insieme alle altre forze della sinistra radicale, anticapitalista ed antimperialista con una convergenza di obiettivi che potrà concretizzarsi solo con la mobilitazione e pressione congiunta dei movimenti sociali e delle forze politiche nei vari Paesi.