Il 2021 è un anno carico di anniversari che riguardano la nostra storia. Il centenario della nascita del PCI, nonostante le ricostruzioni ingenerose di gran parte della pubblicistica, ha fatto riemergere nella memoria collettiva il ruolo avuto dai comunisti nel nostro Paese, durante il Novecento. Ma il 2021 segna anche l’anniversario dello scioglimento del PCI, del suo mutare definitivo di nome e ragione sociale, a seguito di una svolta che fu sostenuta dalla maggioranza del suo gruppo dirigente. Il più grande partito comunista del mondo occidentale assunse quella decisione nel corso del biennio che vide l’implosione dei regimi del cosiddetto “socialismo reale” nell’Europa dell’Est, la repressione di Piazza Tien An Men in Cina e successivamente la fine dell’Urss. Di fronte a quegli avvenimenti, la maggioranza del partito decise di liberarsi della “zavorra” di un nome e di una storia, per dare vita a una formazione politica che non avesse più neanche vagamente un profilo antagonista e anticapitalista. L’approdo al Partito Socialista Europeo non rappresentò la trasformazione in una forza socialdemocratica classica. Infatti, da tempo era già parallelamente in corso una mutazione che aveva trasformato progressivamente quei partiti riformisti, ma ancora espressione della classe lavoratrice e di ispirazione socialista, in formazioni neoliberiste di centro. Sostanzialmente, gli ex-comunisti (come già prima era accaduto ai socialisti italiani) in pochi anni e con gran rapidità si separarono dall’eredità del movimento operaio socialcomunista italiano. Il voto per il trattato di Maastricht, l’abbandono della concezione della democrazia progressiva costituzionale, della centralità del parlamento e l’assunzione del modello elettorale bipolare anglosassone di alternanza con sistemi elettorali maggioritari e presidenzialisti, impermeabili alla rappresentanza degli interessi delle classi subalterne, segnò le coordinate di una nuova storia, in cui l’eredità del passato è stata usata meramente per conservare il consenso elettorale. L’esito di quel processo dopo 30 anni è che l’Italia è diventato un Paese senza sinistra.
Anche Rifondazione Comunista a fine anno compie 30 anni di vita. Il nostro progetto cominciò a delinearsi prima come opposizione nel PCI alla “svolta” e più in generale come movimento di settori popolari, intellettuali e militanti che non accettarono la cosiddetta “morte del comunismo” (in realtà di ogni socialismo), che si affermò come senso comune nel 1989-1991 e la scelta di assecondarla sciogliendo il PCI.
Un’analisi obiettiva delle ragioni di chi si oppose a quella operazione non può che confermarne la fondatezza. La svolta fu presentata come necessaria innovazione e discontinuità anche simbolica, che avrebbe però aperto la strada alla nascita di un grande e moderno partito di sinistra che avrebbe proseguito le lotte che avevano caratterizzato il PCI nel corso dei decenni. Chi si oppose, fuori e dentro il PCI, colse che in discussione non era un nome, ma, con un nome, una identità culturale e politica. Si eludevano la portata e profondità della sconfitta del movimento operaio che si era consumata già negli anni ’80 in tutta l’Europa occidentale, separando le sorti del partito da quello delle classi di riferimento, indicando nel “governo” dell’esistente l’obiettivo unico e finalistico della politica. La crisi del socialismo reale forniva la giustificazione a un percorso iniziato molto prima, quando il tentativo del secondo Berlinguer fu fortemente contrastato nel partito e nel sindacato. Da anni era in corso una massiccia campagna mediatica che invitava i comunisti (dopo che lo avevano fatto i socialisti) a liberarsi della “zavorra” del riferimento al comunismo, per giungere attraverso l’omologazione a legittimarsi come forza di governo. Chi disse no a quella scelta avvertì che quel cambio significava liberarsi dagli ancoraggi ideali e dalle radici sociali, per diventare facilmente preda di una deriva verso destra. L’interrogativo centrale di quello scontro rimane attualissimo. Lo si può riassumere con le parole di Lucio Libertini: “se la vicenda di questo secolo, con il tragico fallimento dei regimi dell’Est, segni la vittoria definitiva del capitalismo, che diviene un limite insuperabile della storia umana, seppellendo la questione del socialismo; o se invece la tragica degenerazione di un grande processo rivoluzionario, che comunque ha inciso sulla storia del mondo, e le nuove gigantesche contraddizioni del capitalismo, a scala planetaria, ripropongano in termini nuovi la questione del socialismo e dell’orizzonte ideale, assai più lontano, del comunismo”.
La risposta intorno a cui nacque la mozione che si intitolò Rifondazione Comunista fu quella non solo di rifiutare la riduzione della storia, degli ideali, del patrimonio culturale e teorico prodotti in quasi due secoli di socialismo/comunismo allo stalinismo o ai regimi nati in determinate congiunture storiche. Non fu neanche soltanto quella, pur fondamentale, di rivendicare il valore e il peso delle lotte per la democrazia e la giustizia sociale, portate avanti da comuniste e comunisti. Ma soprattutto l’idea che senza “orizzonte comunista” non ci sarebbe stata neanche la capacità di resistere, contrastare nel tempo presente il capitalismo e di comprenderne le nuove contraddizioni e le nuove forme di oppressione, devastazione, dispotismo, sfruttamento. Come scrisse Ingrao: “E’ questa parola che ci permette di mettere in relazione le vecchie contraddizioni con le nuove. Distogliere lo sguardo da un orizzonte comunista, accettare che esso sia rimosso a causa del crollo del modello stalinista, vorrebbe dire precludersi una componente essenziale della ricerca del nuovo”.
La rivendicazione di una storia non fu dunque nel segno del conservatorismo identitario o della rimozione della crisi dei comunismi novecenteschi, ma della continuità di una “tradizione di libertà” che insegnava, da Marx a Gramsci, a porre sotto la lente della critica anche le ragioni delle sconfitte e delle degenerazioni. Questo approccio critico non riguardava soltanto la vicenda del “socialismo reale”, ma anche la stessa tradizione del PCI nella cui lunga storia vi erano anche elementi di cultura politica e costituzione materiale che avevano spinto a quegli esiti moderati.
Questi 30 anni non hanno smentito le ragioni del progetto di Rifondazione Comunista, che poi si sviluppò come movimento e poi rapidamente come partito, in quanto confluenza tra una parte della sinistra del PCI e formazioni politiche che venivano dalla storia della nuova sinistra e del lungo sessantotto italiano, come Democrazia Proletaria, e tante compagne e compagni che videro quel nuovo spazio unitario come occasione per ricostruire e ripensare una presenza comunista in Italia. Non fu casuale – proprio grazie a quell’approccio rifondativo – anche la partecipazione diretta e la simpatia di intellettuali e militanti che provenivano da altri filoni della sinistra italiana, da quello socialista a quello di ispirazione cristiana, dai movimenti pacifisti all’ecologismo. Rifondazione Comunista nacque e crebbe con un grande capitale simbolico che poi è andato disperso, capace di coinvolgere elettori (raggiungemmo la punta di 3,4 mln. di voti) e militanti vecchi e nuovi.
Arriviamo oggi a questo passaggio della nostra storia fortemente ridimensionati come presenza nelle istituzioni e nel Paese, organizzazione, iscrizioni, visibilità. Siamo da tredici anni fuori dal parlamento e progressivamente siamo usciti da tutte le regioni e da larga parte degli enti locali. Non siamo più in grado – come tutta la sinistra radicale – di determinare scadenze di mobilitazione nazionale di massa. E’ una situazione che dura da tempo, producendo disaffezione, perdita di senso della militanza, scarso ricambio generazionale. La nostra crisi si inserisce nello scenario ancor più drammatico di un Paese senza sinistra, in cui mai come oggi domina quello che fu definito il “pensiero unico” e le classi lavoratrici sono prive di rappresentanza politica. A 30 anni dalla nascita del nostro partito, veniamo percepiti come un residuo resistente di una storia conclusa e ci confrontiamo in uno spazio sempre più ristretto con altre organizzazioni che fanno riferimento al comunismo e/o alla sinistra radicale, oltre che con culture diffuse a sinistra e nei movimenti che diffidano della forma partito e anche del riferimento al comunismo. Più in generale, è fortissimo il peso dell’anticomunismo nella cultura, nell’immaginario, nel senso comune.
Se sottoponiamo però a verifica il progetto che si delineò durante la lotta contro la liquidazione del PCI e nella successiva nascita del partito, quel che prevale è la conferma delle tesi di fondo in quel che è accaduto nel Paese e nel mondo.
Si può scrivere in tanti modi la storia del nostro partito. Si possono vederne tutti i limiti e le contraddizioni, le divisioni tra dirigenti, lo stillicidio di scissioni, le sconfitte e le delusioni. Ma è possibile anche leggerla in un’altra maniera, rivendicando di essere stati la principale opposizione in Italia al neoliberismo e alla deriva del centrosinistra. Certo siamo stati sconfitti dentro la logica del bipolarismo, ma questo non cancella il valore delle nostre lotte.
Naturalmente non possiamo non confrontarci col bilancio di questo trentennio in cui abbiamo avuto ragione su quasi tutto, ma abbiamo subito una sconfitta di enormi dimensioni. Ma è bene farlo senza rinunciare al rispetto per la resistenza controcorrente che abbiamo rappresentato in questo Paese e di cui si sente oggi più bisogno forse che 30 anni fa. Siamo stati in Italia “il cuore dell’opposizione”, fin dalle proteste operaie del 1991-1992 e dal “no al referendum” per il maggioritario.
Il primo tema da porsi è quello della rifondazione comunista, del nostro profilo ideale, teorico, programmatico. Ha senso il tentativo (come fanno altre formazioni comuniste) del ritorno a presunte ortodossie spesso inventate e incolpare i percorsi innovativi della sconfitta? Noi pensiamo di no, che si tratti una facile via di fuga dalla realtà, che ha più a che fare con l’autorassicurazione di ristrette minoranze che con il recupero di una capacità di incidere nella realtà. Rifondazione Comunista ha costituito un’anomalia e un punto di riferimento positivo per anni per la sinistra radicale di tutta Europa (e non solo), proprio per la sua capacità di non conservare in maniera museale una storia, ma di sviluppare l’incontro, la contaminazione, la discontinuità. Nel ventennale di Genova 2001, ricordiamo che il nostro Paese fu attraversato da un movimento di massa che per alcuni anni ha costituito l’autentica opposizione. Se guardiamo alla stessa frantumazione che oggi affligge l’area comunista e la sinistra radicale, appare figlia dello speculare allontanarsi da due coordinate fondamentali del nostro progetto originario: la rifondazione e la radicalità.
Rivendichiamo dunque il nostro comunismo democratico, libertario, verde, femminista. Il superamento di una concezione “monoteista” del partito – per usare l’espressione di Lidia Menapace – che ci ha predisposto alla ricerca della convergenza, all’internità ai movimenti e all’apertura alle culture critiche, l’aver tentato di coniugare la critica del capitalismo a quella femminista del patriarcato e di ricostruire un punto di vista di classe e internazionalista mettendoci in relazione con tante esperienze su scala europea e internazionale, dal Chiapas al Kurdistan, da Seattle e Porto Alegre alla Sinistra Europea.
Rifondazione Comunista riuscì a essere uno spazio unitario per le comuniste e i comunisti proprio perché non si poneva su terreni escludenti, ma nel comune impegno di ricerca su come lottare nel presente e ricostruire una prospettiva. Oggi abbiamo un proliferare di sigle inversamente proporzionale alla capacità di incidere. Lo diciamo con umiltà e senza pretese egemoniche, ma semplicemente per aprire una riflessione sul necessario avvio di una ricomposizione e riaggregazione di forze a sinistra nel nostro Paese. A trenta anni dalla nascita di Rifondazione Comunista poniamo il tema dell’unità, innanzitutto a chi condivise quel percorso.
Una questione che si pone è quella del rapporto con il centrosinistra, per il peso che ha avuto in questo trentennio. E’ evidente che il bipolarismo ha segnato la nostra vicenda, perché le caratteristiche del sistema politico hanno determinato un campo assolutamente sfavorevole alle forze che lottano per un’alternativa di società. Le spiegazioni semplicistiche e speculari non aiutano. Siamo nati dentro la storia della sinistra italiana e ne portiamo dentro le contraddizioni. Abbiamo pagato il prezzo sia dell’unità, che della rottura. Da anni abbiamo scelto la strada dell’alternatività al centrosinistra, prendendo atto della sua conversione progressiva al neoliberismo. Una strada in salita che pur nella nostra coerenza non è riuscita a produrre un recupero del rapporto di massa. Non pensiamo però che vada abbandonata, perché si fonda non su giudizi ideologici astratti, ma su dati reali. Non intendiamo rinunciare né alla lotta, né alla rifondazione comunista e siamo convinti che servano entrambe per ricostruire la sinistra nel nostro Paese.
Tesi 16 – Rifondazione Comunista 30 anni dopo
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