Diario di trent’anni: Rifondazione comunista continua
La storia controfattuale non è una elucubrazione costruita in tempi e in base a esperienze successive. Deve essere applicata alla situazione cui si dedica, sulla base di idee già allora presenti, tanto da poter ipotizzare una possibilità che non si è realizzata ma poteva realizzarsi. È legittimo tornare a chiedersi: esisteva qualche possibilità che, ancora negli anni Ottanta, il Pci non finisse in un collasso? Aveva ancora un patrimonio culturale non utilizzato, ma ormai utilizzabile, cui ricorrere (mi riferisco in questo caso al “genoma Gramsci”)? Ed erano mature contraddizioni o forze nella realtà su cui far leva per avviare una rifondazione comunista anziché una liquidazione (mi riferisco alla globalizzazione neoliberista già in atto)? A me pare di sì. (Lucio Magri)
Domande dal presente a cento anni dalla fondazione del Pcdi
Questo è un anno di anniversari importanti: cento anni di storia delle comuniste e dei comunisti in Italia, settanta anni di Pcdi-Pci, trenta anni di Rifondazione comunista. Per una rifondazione continua, per dare “un senso a questa storia” oggi, poniamo ad essa domande dal presente. Si sa, d’altro canto, quanto fosse importante la tradizione di studi, riletture, elaborazioni, svolte prodotte dal Pci e dall’Istituto Gramsci proprio in occasione degli anniversari. Porre domande dal presente è anche il modo più efficace che abbiamo per sottrarre quella storia allo scempio revisionista portato avanti dalla ideologia dominante: dalla “maledizione del ‘21” di cui parla Ezio Mauro – che di fatto assegna alla scissione di Livorno la responsabilità di non aver contrastato il fascismo – alla equiparazione tra nazismo e comunismo portata avanti dalla risoluzione del 2019 del Parlamento europeo. Senza la scissione promossa da Bordiga nel 1921 non ci sarebbe stata l’irruzione di un’idea e un di un soggetto di classe organizzato nella storia d’Italia, non avrebbe avuto luogo quello “spirito di scissione” dei gruppi subalterni, la soggettivazione autonoma della classe per sé: l’antitesi teorica e politica non avrebbe avuto una dimensione di massa nella storia di questo paese.
Il farsi storia e la creatività politica nel presente
È fondamentale interrogare non solo la storia del Pci, ma anche del Prc dalla prospettiva controfattuale proposta da Lucio Magri: fare la storia “con i se” serve a comprendere la portate e le conseguenze delle scelte di un soggetto collettivo. Serve al Prc non solo per tracciare un bilancio politico, ma anche per comprendere perché oggi la rifondazione comunista non riesce a “farsi storia” a livello di massa, a divenire movimento reale trasformativo. Una delle questioni su cui Gramsci riflette nei Quaderni, elaborando la sua riflessione sulla rivoluzione “molecolare” in Occidente è la creatività della filosofia, la sua “traduzione” della XI tesi su Feuerbach: una concezione del mondo, come l’ideologia costitutiva del soggetto della trasformazione storica, diviene vera se si fa senso comune, produce una morale conforme e una volontà collettiva che divengono movimento reale, storia. La storia del Pci è la storia di una concezione del mondo che ha saputo farsi storia, che ha intrecciato storia e vite, che è divenuta progresso intellettuale di massa, storia del Paese.
La storia delle comuniste e dei comunisti in Italia è una storia di rifondazioni continue: Livorno, Lione, Salerno, il compromesso storico, Mirafiori, la Bolognina e Rimini, e poi Genova, Venezia e Chianciano. Per citarne solo alcune. Allora questo non può essere solo un anno celebrativo della nostalgia e dell’orgoglio, ma anche un momento di ricerca creativa, politicamente, storicamente. Come torniamo a farci storia e non cascame –a tratti folclorico – di cicli di lotta precedenti? Non si tratta di leggere la storia del nostro partito come “rosario di scissioni” o come “lo stillicidio di sconfitte, delusioni ed errori”. Non stiamo esprimendo un giudizio di valore, ma solo cercando di non rimuovere la necessità di comprendere gli errori affinché essi non si ripetano. La mancanza di autocritica, l’assenza di bilancio politico, lo “storicismo autoassolutorio” e il conformismo sono stati tratti e costume intellettuale di parti del nostro gruppo dirigente. Anche per il Prc è possibile e necessaria una storia controfattuale, proprio perché in tanti passaggi ci fu chi propose una alternativa alle scelte che furono fatte dal gruppo dirigente. Ci sembra importante riflettere su alcuni nodi – senza pretese esaustive – non perché vogliamo sminuire la portata della nostra resistenza in direzione ostinata e contraria, a cui tutte e tutti abbiamo contribuito, ma perché è necessaria una nuova rifondazione.
Good Bye Gramsci: il partito messo al Muro
Il dibattito che attraversò lungo due congressi la comunità politica del Pci fu mendacemente rappresentato come una contrapposizione tra innovazione e conservazione identitaria (il nome e il simbolo). A essere messa al Muro e sepolta sotto le macerie del crollo del comunismo reale fu la diversità del comunismo italiano, a partire, appunto, dal “genoma Gramsci”, dalla ricerca sulla rivoluzione in Occidente al nesso egemonia-democrazia. Più in generale, la svolta di Occhetto uccideva in primo luogo quella diversità del comunismo italiano che, con declinazioni diverse, aveva segnato il Pci dalla Costituente e dalla scommessa togliattiana sulla democrazia progressiva fino alla alternativa democratica promossa dal “secondo Berlinguer”. E, in effetti, la governabilità craxiana che Berlinguer aveva osteggiato fu la vera vincitrice dello scioglimento del Pci. Occhetto, infatti, sostenne da subito la svolta maggioritaria: fine del Pci, indebolimento della lotta di classe dall’alto, governabilità e svolta maggioritaria si intrecciano indissolubilmente.
Il confronto nel Pci negli anni 89-91 è per noi fondamentale anche perché il termine “Rifondazione comunista” nacque proprio all’interno del complesso e drammatico dibattito che segno` la rottura e la scomparsa del Pci. Coloro che si accorsero subito che questo evento avrebbe segnato una ferita profonda politica, teorica, culturale, sociale per la sinistra italiana alternativa al capitalismo e al neoliberismo che si andava imponendo, capirono che non alla nostalgia si doveva ricorrere, e tanto meno alla difesa dell’esistente. Tutt’altro. Si doveva cogliere l’occasione per sviluppare e approfondire quei processi di critica dell’esistente che in Marx e soprattutto in Gramsci avevano gettato le fondamenta e che ora, appunto alla caduta del Muro, chiedevano di essere approfonditi e messi all’opera. Dalla critica di Gramsci alla statolatria e dalle analisi impietose di Rosa Luxemburg (“il socialismo non si fa per decreto”) ai movimenti del ’68 e, soprattutto, alle critiche radicali che venivano dal femminismo della differenza (Carla Lonzi, fra tutte). Si trattava di piantare una ricerca profonda e rigorosa sul Partito comunista italiano, sui partiti comunisti europei e soprattutto sui partiti comunisti dell’est.
Di contro al partito/stato o al partito istituzionale andava costruito un partito movimento. Senza sciogliere, ma trasformare. Appunto rifondare. L’aggettivo ‘comunista’ indicava la direzione al sostantivo ‘rifondazione’. Dunque, non innovazione contro conservazione, ma innovazione radicata nella critica del capitalismo contro innovazione arresa alla ideologia neoliberista. E oggi come allora occorre ribadire che il processo di rifondazione non consiste nella aggiunta di nuovi soggetti o nuovi temi al conflitto capitale-lavoro, ma di leggere il conflitto capitale-lavoro nella sua storicità e nella sua dimensione materialisticamente intersezionale. Ma non la pensavamo tutte/i alla stessa maniera. E alcune/i si “costrinsero” a formare un partitino, invece del partito-movimento. Il capitalismo
aveva vinto a ovest e ad est, oggi più ancora ad est, visto quello che accade nei paesi ex comunisti europei, dai sovranismi ai nazionalismi, dai populismi razzisti all’oppressione delle donne. Aveva vinto, il capitalismo, corrompendo, colonizzando, sussumendo, attraversando le nostre vite, le nostre pratiche, persino assumendo caratteristiche antropologiche devastanti.
Genova per noi
“Come cambiare il mondo senza prendere il potere” dissero alcune/i di noi a Porto Alegre: “potere” significava possibilità di cambiare e trasformare il mondo, a cominciare da noi stessi/e, dalle relazioni tra di noi, con la natura, con le specie animali. Il movimento altermondialista che attraversò le strade del mondo da Seattle a Porto Alegre, da Napoli a Genova, da Nairobi a Malmo, è stato definito giustamente “una potenza mondiale”. E proprio la potenza del movimento contrapposto al potere “dei Grandi” fu la base di una stagione straordinaria di nuova politicizzazione di massa.
Il movimento altermondialista rifondò il Prc: fu una stagione inedita nel rapporto partito-movimento, di internità e permeabilità del partito alle teorie, alla capacità mitopoietica, ossia di creare immaginario, alle pratiche del movimento. Una permeabilità resa possibile anche dalla scelta nel ’98 di far cadere il Governo Prodi e “subire” la scissione del Pcdi a seguito della sua scelta governista. Una capacità resa possibile dall’internità senza se e senza ma al movimento per la pace mentre il Governo D’Alema e il partito di Rizzo bombardavano la Serbia. Oggi a venti anni da Piazza Alimonda, dalla repressione di Genova, dall’omicidio di Carlo, abbiamo una chiara consapevolezza storica di quanto rifondativo fu quel passaggio e di quanto la repressione cilena di quei giorni fosse funzionale e necessaria all’ordine della globalizzazione neoliberista. La nostra utopia era così potente da essere concreta.
Le compagne e i compagni di Rifondazione comunista furono e soprattutto si sentirono protagonisti/e incarnati/e di una speranza concreta di trasformazione, di relazioni da costruire con chi lottava contro soprusi e oppressioni, con chi manifestava, con chi camminava e attraversava le strade. Manifestare contro le guerre significava non scrivere trattati, ma credere in un mondo abitato e governato dai soggetti della trasformazione. A Porto Alegre manifestammo anche per la Palestina libera, a Genova per il mondo libero. Dall’America non soggetta agli Usa ci veniva “il fuoco e la parola” degli zapatisti che imparammo a conoscere, soprattutto dalle donne e dalla loro critica alle pratiche maschiliste presenti anche nei movimenti.
L’innovazione di Chianciano: c’era una volta in basso a sinistra
Crediamo che non si possa comprendere fino in fondo la crisi organica attuale del nostro partito senza correlare alle questioni storiche di lungo periodo che hanno fatto da contesto al “diario di trent’anni” di Rifondazione comunista (il neoliberismo e la sconfitta del movimento operario su scala globale; in Italia, la torsione maggioritaria, il trionfo della governabilità e l’impermeabilizzazione delle istituzioni al conflitto sociale) con un bilancio di medio periodo relativo anche alle scelte soggettivamente agite dall’organizzazione.
Il Congresso di Chianciano e la travagliata scissione agita da parte della mozione “Rifondazione per la sinistra” furono momenti traumatici nella vita del partito. La drammatica conflittualità della discussione risiedeva non solo nelle differenze di valutazione sulla partecipazione al II Governo Prodi e sul nodo di fondo – alternativa di società contro la logica dell’alternanza e della coalizione di centro-sinistra – ma anche sulla necessità di rifondare democraticamente la vita del partito, che aveva rischiato, dopo la sconfitta della Sinistra l’Arcobaleno di essere trasformato in altro da parte del suo gruppo dirigente. Purtroppo, per alcuni versi, rischiò di rieditarsi la stessa narrazione falsificante che aveva attraversato il Pci
nei suoi due ultimi, travagliati congressi: una dicotomia innovazione vs conservazione, rifondazione vs identità comunista.
In direzione ostinata e contraria, alcune/i di noi provarono a riaffermare la necessità di fluire radicate/i, per dirla con Virginia Woolf: cioè di voler praticare una rifondazione della politica radicata nel conflitto di classe e nella costruzione della alternativa di società.
Era questa – ci pareva – una delle intuizioni più importanti della svolta in basso a sinistra: la consapevolezza che l’internità delle forze social-liberiste e socialdemocratiche alla egemonia neoliberista aveva finito per rendere impraticabile e improduttiva de facto una prospettiva progressista (quindi per noi, di coalizione di centro-sinistra) perché proprio il neoliberismo, svuotando le istituzioni rappresentative, aveva cancellato la possibilità di una “democrazia progressiva”.
La scelta della alternativa di società ci portava in basso a sinistra: in basso, con la ricostruzione del blocco sociale attraverso le lotte e il mutualismo conflittuale; a sinistra, radicalmente alternativi a centrodestra e centrosinistra. La difesa del simbolo (il radicamento nella storia) e della organizzazione (contro lo scioglimento dall’alto) non avevano nulla a che fare con la mera conservazione.
“La macchina deviata lungo una linea morta”: il decennio l’unità della sinistra
La storia ci racconta poi come “andò la corsa”: la macchina deviata lungo una linea morta, potremmo dire, parafrasando Guccini. L’unità della sinistra è stata una deviazione rispetto alla innovazione “in basso a sinistra” proposta a Chianciano, nonché una linea morta, che non ha portato a nulla, se non alla consumazione del partito per oltre un decennio. Un’unità politicista, praticata dall’alto e dell’alto, nella convinzione che occorresse “aggregare” nei fatti, prima che ciò che il neoliberismo aveva diviso, ciò che le varie scissioni avevano diviso per fare “massa critica”. Una linea morta e mortifera, perché anziché consentirci di dispiegare e concentrare le energie del partito nella costruzione dell’alternativa di società in basso a sinistra, ha reso rifondazione comunista ostaggio delle scelte di altre forze politiche e la linea politica del partito “variabile dipendente” da forze politiche la cui linea politica era a sua volta variabile dipendente dalla possibilità o meno di allearsi col Pd. Questa estenuante “fiera dell’Est” ha reso invisibile il partito e lo ha logorato nella costruzione di una serie di formule che hanno manifestato di volta in volta la loro geometrica impotenza. I due termini della proposta – l’alternatività al centrosinistra e l’unità della sinistra – infatti non potevano stare insieme, se non in maniera dipendente da una forza politica che era nata proprio come sinistra di governo. E, infatti, oggi, con la scelta di Si di sostenere il Conte II e restare nel quadro del centro-sinistra nonostante il mancato appoggio al Governo Draghi, l’incompatibilità dei due termini è finalmente manifesta a tutto il partito.
Oggi unitariamente non si propone più l’unità della sinistra come architrave della proposta politica. Speriamo che questa scelta non dipenda unicamente dalla indisponibilità degli interlocutori ad abbondare l’ottica del centrosinistra e confidiamo che sia una scelta che segna unitariamente un elemento di discontinuità a partire da questo Congresso. Anche per questa ragione riteniamo necessario un bilancio condiviso della linea attuata per oltre un decennio.
Ripercorriamo velocemente la sequenza, nella speranza che la storia sia maestra. Dopo la Sinistra l’Arcobaleno e Chianciano, dopo la lista comunista e anticapitalista, e la prematura scomparsa del partito dei pensionati, ci fu la Federazione della Sinistra. Ci fu persino un congresso della Fds, ma poi il Pdci di Diliberto ci salutò in nome della partecipazione alle primarie del centrosinistra a sostegno di Bersani. Dare sepoltura al cadavere della Fds avrebbe richiesto un bilancio politico dell’esperienza. Fu scelta la rimozione.
E venne così il Congresso di Napoli, nel 2011. Il documento di maggioranza proponeva l’unità della sinistra nell’ambito del Fronte democratico per cacciare Berlusconi: “Nel quadro
dell’attuale legge elettorale maggioritaria proponiamo quindi di dar vita ad un Fronte democratico tra le forze di sinistra e di centro sinistra per sconfiggere le destre e porre condizioni migliori per difendere e rilanciare la democrazia e la Costituzione, contrastare gli effetti sociali negativi della crisi e superare il bipolarismo”. Il Governo Monti – sostenuto dallo stesso Bersani – provvede a chiarire l’idea di democrazia costituzionale del Pd: introduce il pareggio di bilancio in Costituzione. Fu quindi il tempo di Rivoluzione civile e dei tavoli notturni per definire le teste di lista.
E venne, poi, il 2014, con l’Altra Europa con Tsipras, l’unica esperienza che riesce ad eleggere e a riportare anche il Prc in Parlamento europeo, sulla base di una proposta politica di sinistra radicale: Syriza era in opposizione al Pasok, praticava il mutualismo e il conflitto come base dell’unità della sinistra radicale. Ben presto Sel ritorna nelle terre di mezzo e abbandona AET. C’era allora la possibilità di costruire AET come soggetto radicale e unitario, come sezione italiana della Sinistra europea, possibilità che fu però osteggiata a partire dalle successive elezioni regionali, dove aspettare e inseguire Sel era il mantra anche di una parte del gruppo dirigente del partito. Partecipiamo così a Human Factor, sostenendo l’ipotesi di una sinistra di governo e senza prendere le distanze dalle scelte che intanto faceva il Governo greco, smentendo il referendum: tacemmo in nome di un campismo fuori tempo massimo, contraddicendo il nostro stesso orientamento politico, alternativo ai socialisti europei. E venne così il Tavolo della Sinistra. Dopo numerose riunioni sulla ipotesi di stesura di un documento, Sel e Fassina annunciano la nascita di Si al Teatro Quirino, mentre il partito svolgeva il suo Cpn. Nonostante questo, si decide di sottoporre al partito un quesito referendario interno su una linea (già) morta. Poi venne il Brancaccio, l’affidamento alla società civile, la nascita di Leu. E dopo la parentesi di Pap, la Sinistra (senza aggettivi, come proponeva Bertinotti nel 2007) nelle europee del 2019, con capolista donne scelte da un tavolo di maschi.
Un’occasione persa, la necessaria discontinuità
Di mezzo ci fu una deviazione alla deviazione: Pap. Lì ci fu una possibilità reale di costruire un’alternativa in basso a sinistra, a partire dall’unità delle lotte, dal mutualismo, dal conflitto. Fu un errore, lo diciamo anche autocriticamente, non comprendere subito che alcuni dei soggetti proponenti avevano intenzione di trasformare rifondazione nel “nemico interno” e fagocitarla per dare vita non a una unità politica e sociale, ma a un piccolo partito “emme-elle”. Fu però un errore strategico, di ben più grave portata e tutto interno alle contraddizioni della nostra linea politica, rilanciare la proposta di quarto polo mentre si stava costruendo Potere al popolo! e boicottare di fatto la possibilità che Pap non diventasse un partito in competizione col Prc.
L’occasione persa dopo Chianciano – quella di Rifondazione motore di un processo di connessione dei conflitti, proposta bollata come “rifondazione cresce su stessa” – risulta ancora più grande se si pensa che il sistema politico italiano sarebbe poi stato scardinato da una forza politica interclassista come il M5S che fece del basso contro l’alto la sua ragione fondativa.
Quella intuizione – in basso a sinistra – fu opacizzata da scelte – l’unità della sinistra dall’alto – che ci rendevano indistinguibili e subalterni a chi aveva scelto l’internità al sistema politico esistente. Rendevano incomprensibile e invisibile al Paese la scelta di non scioglierci come organizzazione comunista.
Ma un bilancio di quella linea sarebbe incompiuto senza un dato: il tesseramento, indicatore che ben più dei fallimenti elettorali spiega perché riteniamo debba essere definitivamente chiuso un ciclo politico. Eravamo 71.200 nel 2008; 47.047 nel 2009; 40.770 nel 2010, dopo la scissione di Sel e ancora 37.241 dieci anni fa nel 2011. Oggi siamo meno di 10.000 compagne e
compagni. E appariamo come uno dei tanti “micro organismi invisibili al Paese” della galassia antagonista. Il gruppo dirigente ha continuato a dire che aveva ragione, ma tante compagne e tanti compagni non hanno più trovato ragioni per rinnovare la tessera. Per questo chiediamo siano bandite espressioni auto-rassicuranti come “rilancio del partito”, “rifondazione per l’oggi e per il domani”, “avevamo ragione”, se non connesse a un bilancio politico e a delle pratiche in discontinuità con quella stagione. Le lancette dell’orologio non si possono portare indietro: parlare di semplice rilancio del partito oggi non è la stessa cosa che averlo fatto dieci anni fa, quando la composizione materiale del partito e il suo radicamento consentivano altre possibilità. Il nostro obiettivo oggi non può essere “semplicemente” la conservazione di una organizzazione sempre più insufficiente rispetto al progetto della rifondazione comunista. Rifondazione, non può essere il partitino che cerca alleanze a “zig zag” sulla base di una illusoria, e quanto mai deformante, “unita“ della sinistra”, per entrare nelle istituzioni, anche se alle elezioni ci si deve presentare, ma, appunto, con le caratteristiche di partito movimento.
Per questa ragione riteniamo necessari per uscire dalla crisi organica del partito un bilancio, una rifondazione organizzativa, un salto di qualità e una scelta di discontinuità: una terza fase della organizzazione delle comuniste e dei comunisti in Italia – a cento anni dalla nascita del Pci e a trenta dalla nascita di rifondazione – che sappia essere socialmente utile e svolgere la sua funzione storica nel tempo presente.
Il momento storico periodizzante e la rifondazione comunista necessaria nel presente
Viviamo un momento storico periodizzante, determinato dalla pandemia, dalla crisi sanitaria, e della crisi economica conseguente, di profonde trasformazioni dei processi produttivi (smart working, rivoluzione digitale). Le case sono diventate sempre più casematte, in cui – come aveva già anticipato il femminismo – produzione e riproduzione, lavoro e vita – vengono messi in produzione e in cui la storia entra in casa, ma non ne esce. La rivoluzione digitale sta aumentando insieme il gap computazionale tra multinazionali che si appropriano dei flussi di conoscenza e comunicazione. E ancora, la faglia che si è aperta nel realismo neoliberista, parafrasando Fisher, la fine della stigmatizzazione del debito, della spesa pubblica, sembra dar vita a un passaggio della lotta di classe dall’alto dalla controriforma neoliberista a una rivoluzione passiva, che elargisce un welfare parcellizzante, con esplicito intento passivizzante. Il momento storico periodizzante coincide con una condizione di crisi organica della nostra organizzazione e delle organizzazioni comuniste tutte in Italia.
E mentre i processi di digitalizzazione ci consegnano un nuovo terreno della lotta per l’egemonia, sembriamo privi di creatività politica, intenti all’autoconservazione, al controllo di micro-organizzazioni e delle rendite di posizione che ne derivano. Questi cento anni sono scanditi, appunto da due cicli: dai 70 anni di Pci e dai 30 di Partito della rifondazione comunista. Dobbiamo aprire un nuovo ciclo, rifondare l’organizzazione delle comuniste e dei comunisti in Italia. Una rifondazione comunista, ambientalista, femminista: intersezionale e internazionalista. Che sappia reinventare le forme della organizzazione e ricostituire una sinistra di classe, ribaltare il gap computazionale e connettere lotte e intelligenza collettiva, riattivare lo spirito di scissione e la lotta di classe dal basso.
Imma Barbarossa, Lucietta Bellomo, Claudio Bettarello, Claudia Candeloro, Roberto De Filippis, Michelangelo Dragone, Andrea Fioretti, Eleonora Forenza, Giada Galletta, Riccardo Gandini, Gabriele Gesso, Mara Ghidorzi, Rosario Marra, Nicolo Martinelli, Chiara Marzocchi, Massimiliano Murgo, Antonio Perillo, Angelo Pozzi, Maria Lucia Rollo, Francesca Sparacino, Sara Spera, Sandro Targetti, Pippo Trovato, Arianna Ussi, Lia Valentini, Jan Vecoli, Roberto Villani, Pasquale Voza
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