I nodi delle politiche liberiste, unite in questi anni all’austerità, stanno venendo al pettine. La pandemia ha evidenziato come abbiano prodotto pesanti conseguenze sulla gran parte della popolazione, con la ridistribuzione della ricchezza a favore di rendite e profitti, la riduzione dei diritti e dell’occupazione, il ridimensionamento del pubblico, la subordinazione ai vincoli europei, l’attacco progressivo alle forme di partecipazione e ai diritti conquistati negli anni ’70, la trasformazione della democrazia in una direzione sempre più formale.
In nome del primato dell’impresa e del mercato si è minimizzato il ruolo dello Stato nell’economia, privatizzando le aziende a controllo pubblico, cedute nonostante i bilanci in positivo, mentre nei casi di sofferenza economica sono state lasciate gestire da manager strapagati, esperti più di finanza che di politica industriale, che le hanno mandate in rovina ed esposte a vere e proprie svendite.
L’assenza di indirizzo e controllo ha fatto scomparire intere filiere produttive, insieme a competenze e professionalità di persone consapevoli e rispettose degli interessi generali del Paese. Le privatizzazioni hanno investito settori strategici come i trasporti, le autostrade, le telecomunicazioni, i servizi pubblici locali e persino l’acqua.
La giustificazione delle privatizzazioni o della trasformazione in Società per azioni è sempre stata giustificata con la necessità di pareggiare i bilanci e di sostituire la “cattiva” gestione pubblica con quella privata più efficiente ed efficace, ma il risanamento dei bilanci è avvenuto in realtà solo attraverso l’aumento delle tariffe, come testimoniato dalla Corte dei Conti.
Le gestioni dei servizi pubblici attraverso le S.p.a. hanno prodotto gradualità nelle privatizzazioni, creando assuefazione nell’opinione diffusa, inizialmente rassicurata dalla presenza di quote pubbliche, rispetto a quelle di privati, in aziende sottoposte però a diritto privato, scalabili persino da capitali stranieri. Campioni di queste mistificazioni e processi sono stati prevalentemente i governi di centro sinistra.
La pandemia ha reso eclatanti le conseguenze dei tagli operati nei settori pubblici, a partire dalla Sanità, drammaticamente ridimensionata nelle strutture, nel personale medico e infermieristico, nella prevenzione e nella medicina territoriale. L’introduzione della forma aziendale nella Sanità pubblica ha consentito di sollevare questioni di bilancio e restituire al mercato e ai profitti ciò che ne stava fuori: tra il 2010 e il 2020, sono stati tagliati circa 37 miliardi, portando l’Italia a spendere quasi la metà della Francia e circa un terzo della Germania.
Alla stessa stregua è stata trattata l’istruzione, dalla Scuola all’Università, portando l’Italia tra gli ultimi Paesi europei per il numero di diplomati e laureati e tra i primi per l’abbandono scolastico.
In questi settori, dove grazie alle lotte passate e recenti è più sedimentata la consapevolezza che solo il pubblico garantisce i diritti fondamentali, è ancora presente una certa resistenza alla mercificazione, rendendo più difficile far digerire l’ideologia dello “Stato minimo”.
La pandemia ha evidenziato anche nei trasporti, nei beni culturali e in tanti altri settori, che solo il pubblico può tutelare gli aspetti essenziali della vita delle persone, mentre il mercato non riesce a garantire nemmeno la riproduzione sociale.
“Privato è bello” sta mostrando tutti i suoi limiti, già emersi prima della pandemia e ormai a livelli tali che solo il sostegno dello Stato può contemperare. Alla faccia del mercato, che non è in grado di autoregolarsi e sostenere autonomamente la ripresa, tanto meno rispondere ai bisogni fondamentali delle persone.
Il diverso tasso di difficoltà dei territori, dovuto all’assenza di programmazione economica e allo storico saccheggio delle risorse del Sud da parte di settori finanziari e produttivi del Nord, è emerso ancora di più, riproponendo la “questione meridionale” come problema centrale per tutto il Paese.
Questione destinata ad aggravarsi ulteriormente, con l’Autonomia regionale differenziata, alla quale ha aperto la strada la modifica del titolo V della Costituzione, altro “regalo” del centrosinistra. Gli effetti si sono già visti sulla Sanità, con il caos dell’applicazione delle misure di contrasto al Covid, e nella pratica delle vaccinazioni.
L’attuale situazione potrebbe favorire un rilancio del pubblico, sia per mezzo del “Recovery plan”, che attraverso le risorse ordinarie e, attraverso una reale programmazione pubblica, costituire un importante contributo per riequilibrare gli investimenti verso il Mezzogiorno e i territori più deprivati, oltre a ripristinare i diritti costituzionali alla salute, al lavoro, all’istruzione, all’abitare, alla mobilità, all’informazione.
Il pubblico assume pertanto, in questa fase, un ruolo strategico per la costruzione dell’alternativa di società, nella riproduzione, nella cura e nella produzione.
E’ necessario però un pubblico profondamente rinnovato, depurato dalle degenerazioni prodotte da clientelismi e corruzione nelle assunzioni, nella gestione del personale e nelle gare d’appalto. Un pubblico finalizzato a dare risposte ai bisogni sociali e produttivi della collettività. Un vero rinnovamento richiede una formazione ricorrente centrata sull’innovazione, ma anche su una diversa organizzazione del lavoro, che garantisca qualità alle prestazioni ed ai servizi offerti, valorizzi il personale e dia consapevolezza dell’importanza del proprio ruolo in coerenza con le funzioni sociali di una nuova funzione pubblica. Per questo è fondamentale ripristinare o introdurre, dove non esistevano, strutture democratiche di partecipazione e di controllo, anche conflittuale, dei cittadini e delle cittadine, delle lavoratrici e dei lavoratori. Vanno aboliti i codici di fedeltà aziendale, che hanno limitato il diritto/dovere di denunciare disservizi da parte di lavoratrici e lavoratori, dalle Asl alle ferrovie.
Dalle lotte degli anni ’70 si sono concretizzati diritti costituzionali rimasti fino ad allora sulla carta, nella sanità, nella psichiatria, nella scuola, nella giurisdizione, che hanno diffuso senso di responsabilità verso il ruolo pubblico e la partecipazione, in alcuni settori, di lavoratrici e lavoratori alla gestione della “cosa pubblica”, diventata poi un ostacolo per le politiche liberiste e l’occupazione di aree pubbliche da parte del mercato.
Nella Scuola ad esempio vanno rilanciati gli Organi Collegiali, con una rivitalizzata partecipazione basata su un’effettiva funzione decisionale del personale, degli studenti, dei territori, la cancellazione del “dirigente manager”, sul quale si è tentato d’incardinare inedite forme di gerarchizzazione tra i docenti, la cui condizione paritaria è stata a lungo l’elemento principale della resistenza della scuola ai processi di subordinazione alle logiche di mercato.
Anche nella Sanità, va rilanciato l’essenziale sistema della medicina territoriale e della prevenzione, possibile barriera anche di future pandemie, insieme a strumenti democratici, come si realizzò con i consultori. Anche negli Enti Locali è essenziale ricostruire partecipazione e democrazia, restituendo alle assemblee elettive i poteri trasferiti agli organi esecutivi dalle riforme elettorali degli anni’90.
Sono queste le condizioni per la riappropriazione delle scelte collettive sui territori, il ripristino dei beni comuni, il ritorno all’interno del pubblico dei servizi appaltati ed esternalizzati. Per recuperare la capacità, anche a questo livello, di effettuare la programmazione necessaria per affrontare gli effetti della crisi. Così come a livello centrale è indispensabile il ruolo pubblico nei settori strategici dell’economia, che né il mercato, né la proprietà privata hanno saputo salvaguardare.
Il declino di molte attività, non solo produttive, è dipeso anche dalla forte penalizzazione della Ricerca pubblica, che va rilanciata e sostenuta con forti investimenti, riallineandoli almeno al livello europeo.
Il rilancio di un nuovo pubblico, a livello periferico e centrale, richiede nuove assunzioni anche per riportare nei vari settori le competenze perse con il blocco delle assunzioni, nonché quelle legate a processi innovativi, necessarie per rendere le prestazioni utili ai bisogni dei cittadini e delle cittadine, oltre che alla ripresa occupazionale.
Perché tutto ciò sia realizzabile è necessaria la ricostruzione di un senso comune sul pubblico, a partire dal personale, della sua funzione di garanzia dei diritti. Sono necessarie mobilitazioni e lotte che intreccino gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori pubblici, con quelli dei cittadini/e e dell’insieme del mondo del lavoro, per superare la strumentale contrapposizione tra dipendenti pubblici e privati, costruendo una nuova alleanza.
Tesi 10 – Nuovo pubblico per un’altra società
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