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Le sorti della guerra nel 1943 appaiono segnate, dopo la decisiva vittoria dei Sovietici nella battaglia di Stalingrado (estate 1942-febbraio 1943), lo sbarco americano in Sicilia (9 luglio 1943), i bombardamenti alleati su Roma (particolarmente grave quello sul quartiere popolare San Lorenzo del 19 luglio 1943: circa 3.000 morti e 10.000 feriti) che dimostrava il totale dominio aereo degli Alleati.
La borghesia italiana, e la stessa monarchia dei Savoia, tentano di liberarsi di Mussolini per sopravvivere alla sconfitta che si profila. Lo fanno con una “congiura di palazzo”, concordata con il re, che mette in minoranza Mussolini e ne giustifica l’arresto (il 25 luglio 1943). Il re affida il Governo al maresciallo Pietro Badoglio.
MATERIALI: CHI ERA PIETRO BADOGLIO
Pietro Badoglio (1871-1956), già coinvolto nella rotta di Caporetto ma sottratto all’inchiesta che coinvolse gli altri generali, si era particolarmente distinto per la sua ferocia nella guerra d’Africa. Così scriveva a Graziani:
«Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo proseguirla sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica.»[1]
Governatore unico della Tripolitania e della Cirenaica, il 20 giugno 1930 Badoglio dispose la deportazione forzata della popolazione civile: oltre centomila persone furono costrette a lasciare tutti i propri beni e a partire, compresi i vecchi, le donne, i bambini. I deportati furono rinchiusi in tredici campi di concentramento nella regione centrale della Libia, dopo una marcia forzata di oltre mille chilometri nel deserto. Sopravvissero alla deportazione solo in sessantamila.
Fra l’altro fu Badoglio a utilizzare massicciamente il gas iprite (esplicitamente vietato da tutte le Convenzioni che anche l’Italia aveva sottoscritto), irrorandolo da aerei in volo a bassa quota su soldati e civili. Badoglio, prima ancora della esplicita autorizzazione di Mussolini, aveva già cominciato autonomamente l’uso delle armi chimiche sin dal 22 dicembre 1935, e fu responsabile di almeno 65 bombardamenti sul fronte Nord etiope tra il dicembre 1935 e il 29 marzo 1936, per un totale di più di 1.000 bombe all’iprite.
Alla fine della guerra contro l’Etiopia, fu Badoglio a entrare ad Addis Abeba, assumendo la carica di Vicerè. Fu nominato dal re Duca di Addis Abeba e gli fu consegnata la tessera onoraria del Partito Nazionale Fascista, fu poi nominato presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche succedendo a Guglielmo Marconi. Nel 1938 il suo nome appare tra i firmatari del “Manifesto della razza” in appoggio all’introduzione delle leggi razziali fasciste.
Considerato massone (come peraltro lo stesso re e gran parte dei vertici militari), Badoglio venne chiamato a dirigere il Governo dopo il 25 luglio (e durò in carica fino all’8 giugno 1944). Significativo il suo discorso di insediamento al Governo, che si concludeva con queste parole:
«la guerra continua e l’Italia resta fedele alla parola data (…) chiunque turbi l’ordine pubblico sarà inesorabilmente colpito.»
Dopo la fine della guerra, Badoglio venne inserito nella lista dei criminali di guerra dell’ONU, su richiesta dell’Etiopia, anche per l’uso di armi chimiche sui soldati e sulla popolazione civile, ma non venne mai processato.
[1] Lettera di Badoglio a Graziani, del 20 giugno 1930 , cit. in Antonella Randazzo, L’Africa del Duce: i crimini fascisti in Africa, Arterigere, 2008, p. 119, ISBN 978-88-89666-27-2, OCLC 228781878. URL consultato il 17 luglio 2021.
Mussolini, liberato ad opera di un reparto di SS tedesche dalla blanda prigionia di Campo Imperatore sul Gran Sasso, fu portato in Germania e messo a capo di una repubblica collaborazionista definita “Repubblica Sociale Italiana” (RSI) o “Repubblica di Salò”, dal paese sul lago di Garda dove Mussolini insediò il suo Governo.
Eseguita la vendetta contro i membri del Gran Consiglio del Fascismo che avevano votato contro di lui (il “processo di Verona”, a cui seguì la fucilazione dei gerarchi infedeli), Mussolini si impegnò a proseguire la guerra a fianco di Hitler. Il maresciallo Graziani fu messo a capo del nuovo esercito repubblichino. I militari italiani prigionieri dei tedeschi furono invitati ad aderire al fascismo in cambio della libertà: pochissimi aderirono alla proposta, e furono molti i militari italiani che pagarono con la vita la loro scelta di dignità antifascista.
Ad esempio, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il presidio italiano nell’isola greca di Cefalonia (la Divisione Acqui) ricevette un’intimazione di resa da parte dei tedeschi. Il comandante della divisione, generale Antonio Gandin (Medaglia d’oro al valor militare), consultò i suoi soldati in proposito: all’unanimità scelsero di non arrendersi. Ebbe quindi inizio una battaglia impari tra le truppe italiane e quelle tedesche, con la perdita da parte italiana di 1.250 soldati e 65 tra ufficiali e sottufficiali. Le truppe italiane, attaccate anche dal cielo dalla Luftwaffe e rimaste senza rifornimenti, dopo pochi giorni furono costrette alla resa. L’epilogo fu la rappresaglia tedesca con la fucilazione di circa 5.000 soldati e ufficiali italiani prigionieri (15-26 settembre 1943), in quello che è noto come “l’eccidio di Cefalonia“. I resti del generale Gandin non furono mai ritrovati. I pochi militari italiani superstiti alla strage furono deportati in Germania.
Anche episodi come questi fanno parte a pieno titolo della Resistenza italiana contro il nazifascismo. La Repubblica di Salò cedette di fatto alla sovranità tedesca parti significativa del territorio nazionale italiano: le provincie di Belluno, Trento, Bolzano, oltre a Trieste, Udine, Gorizia, Fiume, il Sud Tirolo, l’Istria, la Dalmazia, etc. Il fatto vergognoso che Mussolini abbia indossato la divisa tedesca nel tentativo di sfuggire alla cattura da parte dei nostri partigiani non è dunque un episodio isolato ma, al contrario, appare come la conclusione altamente simbolica dell’esperienza della RSI che aveva la servitù verso la Germania nazista nel suo DNA.
Anche nei territori ceduti alla Germania si verificarono significativi episodi di Resistenza: nella sola provincia di Belluno (insignita della Medaglia d’oro) si contarono 86 impiccati, 27 fucilati, 11 uccisi dalle torture, e ricordiamo inoltre la deportazione degli ebrei italiani che si verificò per la prima volta in Alto Adige, mentre dal campo di concentramento di Bolzano e dalla risiera di San Saba a Trieste transitavano i deportati verso i campi di sterminio.
Il contributo militare dell’esercito di Salò alla guerra fu sostanzialmente irrilevante. Non fece eccezione neppure la famigerata Decima Mas, una specie di milizia personale di Junio Valerio Borghese, che a partire dalla seconda metà del 1944 fu impiegata in attività antipartigiane al fianco dei tedeschi e in rastrellamenti di civili nelle zone dove agivano i partigiani; in queste azioni si registrarono rappresaglie, saccheggi, sevizie ed esecuzioni sommarie (come la fucilazione di otto partigiani a Valmozzola il 17 marzo 1944), al punto che negli ultimi mesi del 1944 le azioni degli appartenenti al corpo di Borghese crearono preoccupazione anche nelle stesse autorità della RSI, e il Prefetto fascista di Milano ne chiese l’allontanamento dalla città.
Junio Valerio Borghese, il capo della X MAS, dopo la guerra fu condannato a due ergastoli. La pena fu ridotta a 12 anni di carcere, ma Borghese venne presto rimesso in libertà anche a seguito della “amnistia Togliatti” (giugno 1946). Dal 1951 al 1953 fu presidente onorario del MSI, per poi staccarsene verso formazioni più estreme. Nel 1970 è suo un tentativo, rientrato, di colpo di stato.
MATERIALI: BORGHESE E LE SUE PROTEZIONI DA PARTE DEI SERVIZI SEGRETI FINO AL TENTATIVO DI GOLPE NEL 1970
Dopo lo scioglimento formale della X Mas a Milano il 26 aprile 1945, Borghese fu contattato dall’agente dei Servizi segreti italiani Carlo Resio e dal capo dell’OSS (“Office of Strategic Services”) inglese James Angleton, che a nome dell’ammiraglio Raffaele de Courten lo invitarono a Roma. L’11 maggio, con l’aiuto dei servizi segreti americani, scortato da Resio e Angleton, Borghese fu trasferito a Roma, dove trascorse un periodo prima di essere ufficialmente arrestato dalle autorità americane.
Angleton scrisse ai suoi superiori:
“È di primaria importanza evitare il processo e l’esecuzione di Borghese da parte degli italiani. (…) Il soggetto è di grande interesse per le nostre attività di lungo periodo.” (Cit. in M.J. Cereghino-G. Fasanella, Il golpe inglese, Milano, Chiarelettere, 2016, p.iii.)
Rilasciato in ottobre, Borghese venne nuovamente arrestato dalle autorità italiane in attesa di un processo. Grazie alla protezione accordatagli dai Servizi segreti alleati, con i quali era già in contatto da diversi mesi prima della fine della guerra, Borghese ottenne di essere giudicato da un tribunale compiacente.
La Corte di Assise, che lo prosciolse già in istruttoria dall’accusa di crimini di guerra, il 17 febbraio 1949, lo ritenne colpevole di collaborazionismo con i tedeschi in azioni di rappresaglia e di concorso morale in stragi di partigiani.
Borghese fu formalmente condannato a due ergastoli per aver fatto eseguire ai suoi uomini «continue e feroci azioni di rastrellamento» ai danni dei partigiani che, di solito, si concludevano con «la cattura, le sevizie particolarmente efferate, la deportazione e l’uccisione degli arrestati», allo scopo di rendere tranquille le retrovie dell’esercito invasore. Dopo tre anni di detenzione, fu condannato a 12 anni di reclusione per collaborazionismo, ma liberato subito per effetto dell’amnistia.
Nel dopoguerra Borghese fu Presidente del MSI dal 1951 al 1953. Nel settembre 1968 fondò il Fronte Nazionale, allo scopo –secondo la Polizia – “di sovvertire le istituzioni dello Stato con disegni eversivi”. Costituì quindi gruppi clandestini armati, in stretto collegamento con “Ordine Nuovo” e “Avanguardia Nazionale“, e nel 1970 si fece promotore di un fallito colpo di Stato, passato alla storia come “golpe Borghese” (cfr. infra UD 2.8).]
A proposito delle attività militari dei fascisti repubblichini, è di grande importanza una circostanza sottovalutata o nascosta dalla storiografia borghese: la scomparsa militare dei fascisti (se si vuole: la mancanza di una “resistenza fascista”) nelle zone d’Italia non controllate dai tedeschi. Benché potessero contare sull’organizzazione promossa dal regime e sulle cospicue forze militari della Milizia, i fascisti dopo il 25 luglio si dileguarono come neve al sole. E quando, dopo l’armistizio dell’8 settembre, l’Italia fu di fatto divisa in due (il Nord controllato dai tedeschi, il Sud dagli Alleati) non si registrò al Sud nessuna azione di opposizione armata dei fascisti.
Al contrario, la Resistenza armata antifascista si manifestò massicciamente nel Centro-Nord, cioè in territori controllati dai tedeschi, nonostante la forza preponderante (e la ferocia) dell’esercito di occupazione germanico.
Questa circostanza appare decisiva per smentire la vulgata della Resistenza come “guerra civile”1, cioè di una guerra che avrebbe impegnato il popolo italiano su due fronti quasi equivalenti: se così fosse stato, si sarebbe verificata lotta armata da parte dei fascisti su tutto il territorio nazionale (come accade in Spagna durante al guerra civile 1936-39), ma questo in Italia non si verificò affatto.
La lotta armata popolare in Italia fu una sola: quella per la libertà, condotta dai partigiani e dalle partigiane, con il largo sostegno dalle popolazioni, contro i tedeschi e contro i fascisti che erano al loro servizio. I fascisti ricomparvero invece nella Repubblica di Salò al seguito dei tedeschi, e di solito furono impegnati da questi in azioni particolarmente infami, come il rastrellamento e l’esecuzione dei partigiani, le attività di delazione contro antifascisti ed ebrei, la tortura dei prigionieri, etc. Sono stati questi i comportamenti di coloro che l’on. Luciano Violante (PD) ha definito, quasi affettuosamente, “i ragazzi di Salò”.
Furono ad esempio di questo tipo le azioni degli attori Osvaldo Valenti (membro della X Mas) e Luisa Ferida, o di altre “bande” fasciste che operavano spesso in diretta dipendenza delle SS tedesche, con il loro quartier generale nella sede di Via Tasso a Roma, il luogo delle torture, come quelle che uccisero a 35 anni il grande intellettuale di “Giustizia e Libertà” Leone Ginzburg2, arrestato dai fascisti e consegnato ai tedeschi.
Fra questi feroci reparti di fascisti repubblichini dedicati alla persecuzione degli antifascisti spicca la cosiddetta “Banda Koch” (di Pietro Koch) che costituì un “Reparto Speciale di Polizia Repubblicana”. La “Banda Koch” si distinse a Roma e a Milano per la cattura di antifascisti e le torture sui prigionieri (fra gli altri del colonnello Marino, del generale Mario Caracciolo catturato in un convento nonostante l’extraterritorialità, del comunista Giovanni Roveda, del prof. Pilo Albertelli, torturato e poi ucciso alle Fosse Ardeatine, del tenente di PS Maurizio Giglio, sottoposto per giorni a brutale tortura insieme all’agente di PS Giovanni Scottu, etc.).
Koch guidò anche l’assalto al convento annesso alla basilica di San Paolo, che portò all’arresto di 67 persone fra ebrei, renitenti alla leva, ex-funzionari di Polizia e militari di rango del Regio Esercito (i generali Monti e Fortunato). Catturato nel giugno 1945, Koch fu fucilato a Forte Bravetta e la sua esecuzione fu filmata dal regista Luchino Visconti che era stato arrestato e torturato da Koch.
Operò in Toscana e in Veneto la “Banda Carità”, anch’essa specializzata nella caccia a partigiani ed ebrei e nelle torture. I membri della “Banda Carità”, dopo l’uccisione in un conflitto a fuoco del Carità, furono condannati nel dopoguerra a lievi pene o amnistiati, perché le loro torture risultarono sì “efferate” ma non “particolarmente efferate”3, come richiedeva il testo dell’amnistia perché essa fosse inapplicabile ai condannati.
MATERIALI: L’AMNISTIA
L’amnistia del 1946.
Il 22 giugno 1946 entra in vigore il “Decreto presidenziale di amnistia e indulto per reati comuni, politici e militari” avvenuti durante il periodo dell’occupazione nazifascista. La legge è stata proposta e varata dal ministro di Grazia e Giustizia del primo governo De Gasperi, Palmiro Togliatti, segretario del PCI.
L’amnistia, che prenderà il nome dal suo promulgatore, comprende il condono della pena per reati comuni e politici condannati a un massimo di 5 anni. Nelle intenzioni del legislatore, dunque, reati gravi e gravissimi non sono inclusi nel provvedimento, che tuttavia subirà – in particolare dopo l’estromissione dei comunisti dal governo, nel febbraio 1947 (terzo governo De Gasperi) – un’estensione indiscriminata, anche dovuta alla mancata epurazione della Magistratura.
Scopo del decreto era, in un primo momento, quello di giungere quanto prima a una pacificazione nazionale, per evitare che l’epurazione rallentasse ulteriormente la ricostruzione materiale del paese.
Con l’amnistia vengono scarcerati migliaia di fascisti, che si sono resi responsabili, anche, di vere e proprie atrocità, tuttavia non considerati tali dai giudici: è il caso, ad esempio, dello stupro di gruppo ai danni di una partigiana, ritenuto dalla Magistratura una semplice offesa al pudore e all’onore, e quindi amnistiato.
Il provvedimento di amnistia scatena fin da subito malumori e tensioni, soprattutto nel nord Italia, dove la lotta di Liberazione è stata più duratura, e quindi più intensa, rispetto ad altre parti del paese.
Le polemiche provengono soprattutto dall’associazionismo partigiano e dai perseguitati politici antifascisti, che non accettarono di buon grado la scarcerazione dei loro aguzzini, soprattutto se nel contempo restano in carcere partigiani arrestati per azioni compiute durante l’occupazione o subito dopo la Liberazione. Anche la base del partito contesta duramente il segretario del PCI.
L’amnistia cosiddetta Togliatti sarà seguita da altri provvedimenti, che amplieranno la casistica dei crimini condonabili. Nel 1948 vengono estinti; nel 1953 l’amnistia, accompagnata dall’indulto, è applicata a tutti i reati politici commessi entro il giugno 1948”.
(Fonte: M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946: colpo di spugna sui crimini fascisti, Milano, Mondadori, 2006).
Importanti, anche a proposito dell’amnistia del 1946 e delle sue conseguenze, le osservazioni di Cesare Bermani, Il nemico interno…, Roma, Odradek, 2003, pp. 111-135.
1 Su questo tema, sono fondamentali (anche se non sempre condivisibili) le osservazioni di Cesare Bermani, Il nemico iterno. Guerra civile e lotta di classe in Italia (1943-1976), Roma, Odradek, 2003 (2.a ediz.), in particolare le pp.1-66.
2 Da vedere: A. D’Orsi, L’intellettuale antifascista. Ritratto di Leone Ginzburg, Vicenza, Neri Pozza, 2022.
3 Sulle (agghiaccianti) motivazioni delle sentenze che permisero a molti torturatori fascisti di godere dell’amnistia, cfr. C. Bermani, op. cit., pp. 116-120.