1.4 La crisi del dopoguerra. Il “biennio rosso” e l’occupazione delle fabbriche

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La prima guerra mondiale segna un autentico tornante nella storia, non solamente politica.

Sono crollati quattro imperi secolari. Alle perdite umane ingentissime si aggiunge anche un gravissimo costo economico che produce un aumento complessivo del debito pubblico, la crescita della disoccupazione (ristrutturazione dell’industria di guerra in civile), l’impennata dei prezzi.

Le speranze di una nuova era di pace (la “pace perpetua” ipotizzata dai “14 punti” del presidente statunitense Thomas W. Wilson) si infrangono contro la logica dei trattati di pace che creano scontento, volontà di rivincita e non risolvono i problemi nazionali (confini, migrazioni di popolazioni). La “Società delle nazioni”, fondata per evitare nuove guerre ed affermare il principio di autodeterminazione dei popoli, si dimostra debole e priva dei mezzi per costruire un nuovo ordine mondiale.

A questo si aggiunge la nascita del primo stato socialista, frutto di una rivoluzione (febbraio-ottobre 1917) che abbatte la monarchia zarista, esce dalla guerra, e dopo un drammatico conflitto civile, dal 1922 prende il nome di Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). La politica di Lenin e Trotskij porta alla Terza Internazionale comunista (Comintern), fondata il 2 marzo 1919, alla nascita, nel mondo intero, di partiti comunisti, nella prospettiva di una rivoluzione mondiale, possibile solamente se essa avrà al centro i paesi più industrializzati.

L’ondata rivoluzionaria, partita dalla Russia durante la guerra, non ha, però, seguito.

Ritratto Rosa Luxemburg
Rosa Luxemburg (1871-1919), via Wikimedia Commons.

Nel gennaio 1919, il moto spartachista viene represso a Berlino dal governo socialdemocratico. Vengono uccisi, il 15 gennaio, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht che avevano fondato il Partito comunista tedesco (PKD). Pochi giorni dopo, muore Franz Mehring, il più grande storico marxista del tempo. Nella primavera viene repressa la Repubblica dei consigli di Baviera, nata nel novembre precedente. La durissima repressione è guidata dal socialdemocratico Noske e praticata da gruppi paramilitari, futuro strumento del nazismo. Saranno sconfitti e repressi anche i successivi moti del 19231.

Eguale sorte ha la Repubblica dei consigli nata in Ungheria nel marzo 1919. La guida Bela Kun (1886-1939), vi partecipa il filosofo Gyorgy Lukàcs (1886-1971). Dopo cinque mesi, la repubblica è soffocata dall’intervento di truppe rumene e cecoslovacche2.

In Gran Bretagna, la difficile situazione economica e la disoccupazione che tocca i due milioni, soprattutto per la crisi carbonifera, producono proteste e movimenti sociali che si articolano, però, su posizioni riformiste. Nel 1924 nasce il governo laburista. Così nell’Austria dove ha gran peso l’ “austromarxismo”.

In Italia il costo della guerra, nonostante la vittoria, è pesantissimo: al grande numero dei morti si aggiunge il collasso del settore agricolo, la chiusura degli sbocchi per la migrazione, il carovita, la disoccupazione di massa.

Sono fortemente colpiti dalla crisi a sud la piccola e media borghesia e a nord il proletariato industriale. L’organizzazione sindacale cresce in modo esponenziale. All’interno del Partito socialista, ma soprattutto nelle masse operaie, avanza la speranza di “fare come in Russia”, di rovesciare i rapporti di produzione.

Il malessere sociale cresce con il ritorno dei militari dal fronte. Alle lotte contadine, particolarmente forti nella pianura padana, si affiancano quelle dei centri industriali del nord su salario, occupazione, orario (le otto ore), ma anche su democrazia, controllo e potere in fabbrica. Le proteste contro il carovita crescono e si legano a vere e proprie sollevazioni (Ancona) anche contro l’invio di truppe in Albania.

Nell’agosto del 1920, la FIOM (metalmeccanici) proclama la lotta. Contro la serrata padronale, ad iniziare dall’Alfa Romeo di Milano si estendono la pratica dell’occupazione delle fabbriche e il tentativo di autogestirle.

MATERIALI: GRAMSCI “BISOGNA AVER VISTO…”

Nell’ottobre 1926, ricordando ancora una volta (sull’ “Unità”1) l’occupazione delle fabbriche a Torino, Gramsci sottolinea come quell’esperienza avesse dato luogo ad un fiorire di creatività operaia, prefigurando in qualche modo cosa sarebbe stato un mondo in cui la produzione non fosse più impedita dai lacci della proprietà privata:

“(…) le masse lavoratrici videro in essa [l’occupazione delle fabbriche, n.d.r.] la riprova della rivoluzione russa in un paese occidentale, in un paese industrialmente più progredito della Russia, con una classe operaia meglio organizzata, tecnicamente più istruita, industrialmente più omogenea e coesa…

Si tratta quindi per Gramsci di una sorta di breve esperimento della rivoluzione in Occidente (e sono notevoli, anche considerando la data dell’articolo, le sottolineature dei tratti di  superiorità di una tale esperienza rispetto a quella russa). In particolare Gramsci sottolinea le tre grandi “capacità” dimostrate dalla classe operaia in quella circostanza:

1) Capacità di autogoverno della massa operaia.(…) L’occupazione delle fabbriche domandò una molteplicità inaudita di elementi attivi dirigenti. Ogni fabbrica dovette costruirsi un governo, che era rivestito insieme di autorità politica e di quella industriale, (…) Questo compito fu assolto brillantemente. (…)

2) Capacità della massa operaia di mantenere e superare il livello di produzione del regime capitalistico. (…) Nella  Fiat si produssero più automobili che prima dell’occupazione (…).

3) Capacità illimitata di iniziativa e di creazione delle masse lavoratrici. Per esaurire questo punto occorrerebbe un intiero volume. L’iniziativa si sviluppò in tutti i sensi. Nel campo industriale, per la necessità di risolvere questioni tecniche, di organizzazione e di produzione industriale. Nel campo militare, per rivolgere a strumento di difesa ogni minima possibilità (…) Nel campo artistico, per la capacità dimostrata nei giorni di domenica di trovare modo di trattenere le masse con rappresentazioni teatrali e di altro genere, in cui tutto era inventato dagli operai: la messa in scena e la produzione. Bisogna aver visto dei vecchi operai, che parevano stroncati da decenni e decenni di oppressione e sfruttamento, raddrizzarsi anche fisicamente nel periodo dell’occupazione, sviluppare attività fantastiche, suggerendo, aiutando, sempre attivi notte e giorno; bisogna aver visto questo e altri spettacoli per convincersi quanto siano illimitate le forze latenti delle masse e come esse si rivelino e si sviluppino impetuosamente appena la convinzione si radica di essere arbitri ed egemoni dei propri destini.2


1 Ancora delle capacità organiche della classe operaia, non firmato, ora in: A. Gramsci, La costruzione del Partito comunista 1923-1926, Torino, Einaudi, 1971, pp. 344-348. 

2 Ibidem, p. 346-347.

La Commissione interna seduta al tavolo di Agnelli durante l'occupazione della FIAT
La Commissione interna seduta al tavolo di Agnelli durante l’occupazione della FIAT, via Wikimedia Commons.

La direzione riformista dei sindacati ottiene nelle trattative aumenti salariali e miglioramenti normativi, emarginando l’ala che vede nell’occupazione la premessa per uno sbocco rivoluzionario e soprattutto isolando le lotte degli operai del Nord dal resto del paese.

La vittoria sindacale si accompagna, quindi, ad una sconfitta politica, segnata anche dalla scissione del Partito socialista, dal riflusso della spinta rivoluzionaria, dalla crescita di una reazione che sfocerà nella violenza fascista.

Al riformismo, fautore di un processo graduale di riforme e al massimalismo che chiede astrattamente l’instaurazione del comunismo, iniziano ad affiancarsi il gruppo del “Soviet”, a Napoli, attorno ad Amadeo Bordiga, e quello dell’”Ordine nuovo”, a Torino (Gramsci, Togliatti, Terracini, Tasca). Da loro e dai milanesi, nascerà, nel gennaio 1921, il Partito comunista d’Italia (PCd’I)3.

Il Congresso di Livorno del PSI da cui nascerà, il 21 gennaio 1921, il PCdI, via La Voce di New York.

Per saperne di più:


Libri

  • Paolo SPRIANO, L’occupazione delle fabbriche, Torino, Einaudi, 1968
  • Paolo SPRIANO, Gramsci e l’Ordine Nuovo, Torino, Einaudi, 1965
  • Gianni BOSIO, La grande paura, Roma, Samonà e Savelli, 1970.
  • I capitoli specifici di Paolo SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano, vol. 1, Torino, Einaudi, 1967, e di Angelo D’ORSI, Gramsci, una nuova biografia, Milano, Feltrinelli 2017 (seconda ed. 2018).

Film

  • Margarethe VON TROTTA, Rosa L., 1985. Su Rosa Luxemburg cfr. anche la versione teatrale di Luigi Squarzina e Vico Faggi per il teatro stabile di Genova (1976).
  • Dezso MAGYAR, Gli agitatori, 1969. Film censurato in Ungheria per il richiamo allo spirito rivoluzionario del movimento consiliare del 1919, contrapposto al regime di Kadar.
  • Sergej M. EJZENSTEIN, Sciopero (1924), La corazzata Potemkin (1925), Ottobre (1928).
  • Vsevolod PUDOVKIN, La madre (1926), La fine di S. Pietroburgo (1927), Tempeste sull’Asia (1928).

1 Cfr. Corrado BASILE, L’ottobre tedesco del 1923 e il suo fallimento. La mancata estensione della rivoluzione in occidente, Paderno Dugnano, 2016.

2 Cfr, Pietro ACQUILINO, Jòzef PANKOVITS, Gli insegnamenti di una sconfitta, Sesto S. Giovanni, Pantarei, 2019; Corrado BASILE, I 133 giorni della repubblica dei consigli, Genova, Altergraf, 1979.

3 Nel 1943, con lo scioglimento della Terza Internazionale, il nome cambierà in Partito comunista italiano (PCI).