2.11 Le BR e il “caso Moro”

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La contestualizzazione storica

Nella metà degli anni Settanta, il ricorso alle bombe e alle stragi non aveva indebolito la forza politica e sociale della sinistra, che vince il referendum sul divorzio mentre il PCI cresce impetuosamente nelle amministrative del 1975, e  nelle elezioni politiche del 1976 (le prime col voto ai diciottenni) raggiunge il 34,3% dei voti (12.615.650) minacciando il “sorpasso” sulla Democrazia  Cristiana[1].

Si verifica tuttavia una contraddizione drammatica: a questa grande forza politica della sinistra corrisponde una crisi economica e sociale crescente, che colpisce con particolare durezza i giovani e il lavoro precario (il proletariato cosiddetto “non garantito”) mentre anche la classe operaia delle fabbriche è colpita dalla reazione padronale contro le conquiste dei primi anni Settanta e la forza del Sindacato dei Consigli.

Ad approfondire drammaticamente la divisione fra classe operaia sindacalizzata e nuovo proletariato precario e giovanile contribuì anche la politica di moderazione sindacale (la cosiddetta “linea dell’EUR”[2]). Nel gennaio del ’78, il segretario della CGIL Luciano Lama aveva dichiarato, in un’intervista a “Repubblica”:

“(…) se vogliamo essere coerenti con l’obiettivo di fare diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli occupati deve passare in seconda linea (…)”.

E ancora:

“Noi non possiamo più obbligare le aziende a trattenere alle loro dipendenze un numero di lavoratori che esorbita le loro possibilità produttive”.

E infine:

“Ci siamo resi conto che un sistema economico non sopporta variabili indipendenti (…) e che la forza lavoro è divenuta pur essa una variabile indipendente (…). Ebbene, dobbiamo essere intellettualmente onesti: è stata una sciocchezza”.

Immagine in bianco e nero di Lama che tiene un discorso davanti a diverse persone all'Università di Roma "La Sapienza".
Lama all’Università di Roma, via Collettiva

Lama incontrò forti opposizioni anche nella CGIL e nel PCI di Berlinguer[3]. La “linea dell’EUR” proponeva ai lavoratori una “politica di sacrifici”, volta a sanare l’economia italiana, dimostrandosi del tutto inadeguata a rappresentare e gestire il disagio sociale[4].

Si verifica così nella seconda metà degli anni Settanta la pericolosa situazione che Gramsci aveva già descritto a suo tempo, riflettendo sulle conseguenze negative della sottovalutazione dei conflitti e dei movimenti di massa da parte delle organizzazioni del movimento operaio:

“Trascurare e peggio disprezzare i movimenti così detti «spontanei», cioè rinunziare a dar loro una direzione consapevole, ad elevarli ad un piano superiore inserendoli nella politica, può avere spesso conseguenze molto serie e gravi.

Avviene quasi sempre che a un movimento «spontaneo» delle classi subalterne si accompagna un movimento reazionario della destra della classe dominante, per motivi concomitanti: una crisi economica, per esempio, determina malcontento nelle classi subalterne e movimenti spontanei di massa da una parte, e dall’altra determina complotti dei gruppi reazionari che approfittano dell’indebolimento obbiettivo del governo per tentare dei colpi di Stato.

Tra le cause efficienti di questi colpi di Stato è da porre la rinunzia dei gruppi responsabili a dare una direzione consapevole ai moti spontanei e a farli diventare quindi un fattore politico positivo.[5]

La contraddizione fra le crescenti tensioni sociali e il sostegno al Governo Andreotti da parte del PCI e del Sindacato comporta insomma una forte spinta di massa verso posizioni anche estremistiche, in cui cercheranno di inserirsi le organizzazioni che propugnavano la lotta armata.

Così, nello stesso periodo cruciale in cui si realizza la strategia della tensione di stampo marcatamente neofascista e autoritario, si sviluppa in Italia il “terrorismo rosso” (per altri “lotta armata”) che vede nelle Brigate Rosse la sua più strutturata forma organizzativa.

Si tratta di un fenomeno italiano (in altri contesti europei è più debole e meno duraturo) che ha prodotto danni enormi alla sinistra e al movimento operaio, e su cui – come vedremo –  permangono diverse interpretazioni storiografiche.

Per una storia delle BR

Le “Brigate Rosse”, avevano fatto la loro comparsa all’inizio degli anni Settanta, ad opera di un gruppo dell’Università di Trento, da altri provenienti dalla FGCI di Reggio Emilia e da alcuni quadri di fabbrica milanesi (Sit-Siemens).

La vicenda delle Brigate Rosse corre lungo binari propri, non assimilabili allo stragismo nero e di Stato[6], e tuttavia presenta dinamiche che chiamano ripetutamente e direttamente in causa la strategia della tensione, il ruolo dei servizi, italiani e stranieri con l’obiettivo di alterare lo sviluppo di una libera dialettica democratica in un’Italia profondamente ipotecata dall’appartenenza al protettorato statunitense, secondo i dettami degli accordi di Yalta.

La proposta della lotta armata clandestina in verità non aveva incontrato consensi nel movimento, neanche nei suoi settori più estremistici, sia per il primitivismo e l’infondatezza delle analisi politiche (l’Italia preda dello “Stato Imperialista delle Multinazionali”, il cui abbattimento tramite la lotta armata avrebbe condotto alla dittatura del proletariato), sia perché ripugnava alla maggior parte dei compagni e delle compagne l’idea che qualcuno potesse arrogarsi il diritto di uccidere, e sia perché la militarizzazione delle organizzazioni armate, il verticismo e la segretezza delle decisioni etc., erano l’esatto contrario della democrazia diretta e partecipata che, almeno partire dal ’68, segnava la lotta politica delle giovani generazioni.

Inoltre, come fin dall’inizio fu dimostrato (i casi di Marco Pisetta, di Silvano Girotto “frate mitra” etc.), proprio la struttura militare e clandestina si prestava particolarmente alle attività di infiltrazione di informatori e provocatori da parte dei Servizi dello Stato.

In una prima fase (fino al 1976) l’attività delle BR si era limitata a sporadiche azioni di “propaganda armata” che cercavano di incontrare lo scontro sociale nelle fabbriche del Nord e l’antifascismo militante. Tuttavia, dopo diversi arresti ed uccisioni che scompaginarono il nucleo fondatore, lo storico Cesare Bermani può scrivere:

“del tutto estranee rispetto al movimento, all’inizio del ’76 le BR erano state pressoché debellate”[7].

A creare nuovo spazio per la lotta armata contribuì però sia la situazione politica e sociale da cui siamo partiti (che portò anche all’approvazione della Legge Reale nel 1975) e sia una serie di incomprensibili scelte del Ministero dell’Interno (Cossiga):

“Nel 1976 venne infatti sciolto il Nucleo antiterrorismo dei carabinieri sotto il controllo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa; e nel 1977 venne disperso anche l’Ispettorato antiterrorismo della polizia di Santillo.”[8]

Il “terrorismo rosso”, nato dalle scelte totalmente erronee di chi si autoproclamava depositario di inesistenti istanze rivoluzionarie, non fu mai fenomeno di massa, ma il generalizzato rifiuto della lotta armata da parte della classe operaia e dei movimenti[9] non escluse, specie dopo il ’77, l’esistenza di aree di tolleranza e anche di tacito consenso e di connivenza verso le BR.

Considerando la intera durata delle BR (1970-1988) in totale 911 persone sono state inquisite per avere fatto parte delle BR[10] (come effettivi o come fiancheggiatori, ma il numero comprende anche persone risultate poi innocenti), molti furono i ferimenti, i sequestri, le rapine necessari per finanziare l’organizzazione, 86 sono stati gli omicidi, fra cui quello dell’operaio comunista, delegato di fabbrica della FIOM, Guido Rossa (24 gennaio 1979).

Immagine in bianco e nero del corpo di Guido la Rossa che giace senza vita nell'automobile, ha la testa poggiata sul volante e le gambe stese sul sedile del passeggero.
Il corpo di Guido Rossa, via Wikipedia.

Le conseguenze della lotta armata per la lotta di classe e per la stessa vita democratica del Paese furono terribilmente negative. La repressione verso le lotte di massa trovò argomenti di consenso presso l’opinione pubblica, fu fermata l’avanzata del PCI verso il Governo, si scoraggiò per un’intera generazione la partecipazione alle lotte con il ricatto di favorire il terrorismo, e si tentò di mettere la stessa lotta di classe sul banco degli imputati.

La linea politica di Moro e gli USA

Di fronte all’avanzata della sinistra e del PCI si fa strada, nella parte della DC che guarda ad Aldo Moro, la necessità di porre fine alla “conventio ad excludendum”, vale a dire al patto in vigore sin dal 1948 fra i partiti atlantisti, che escludeva, sotto qualsiasi forma, la partecipazione dei comunisti al governo del paese.

Moro pensa invece che la “democrazia bloccata” rappresenti un danno per la stessa DC, abituata a considerare il governo del paese come un proprio esclusivo appannaggio e dunque degenerata in un processo corruttivo e in una crisi che solo una democrazia compiuta avrebbe potuto arginare.

L’ipotesi che prende corpo nel confronto con il PCI di Berlinguer è quella di una fase di collaborazione, al termine della quale i cittadini possano liberamente scegliere a chi affidare il governo del paese.

È un’ipotesi che mette radicalmente in discussione i dettami della guerra fredda e che stride profondamente con le iniziative dell’imperialismo americano impegnato a intervenire in ogni parte del mondo, dall’America latina (il piano Condor) all’Asia, all’Europa per arginare “con qualsiasi mezzo” l’avanzata comunista.

Immagine in bianco e nero di 
Kissinger (il mandante) che si congratula con una stretta di mano con il dittatore Pinochet (l'esecutore) dopo il colpo di Stato in Cile.
Kissinger (il mandante) si congratula con il dittatore Pinochet (l’esecutore) dopo il colpo di Stato in Cile.

Ciò che accade in Italia, terra di frontiera e osservata speciale degli USA, non sfugge al Dipartimento di Stato americano, e nel 1974, durante una visita ufficiale di Moro negli USA, Henry Kissinger gli recapita una esplicita minaccia:

«Onorevole, lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. O lei smette di fare queste cose o la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere. Questo è un avvertimento ufficiale”.

Dopo quell’incontro, Moro accusò un malore e anticipò il suo rientro in Italia. Parlando con i suoi più stretti collaboratori, riferisce le parole di Kissinger e dice loro  “dovremo prepararci  a momenti molto difficili”, poi incarica di comunicare alla stampa la propria volontà di abbandonare per qualche anno l’attività politica.

La moglie di Moro, Eleonora, confermò con precisione l’accaduto alla I Commissione parlamentare d’inchiesta con le testuali parole di Kissinger riferitegli dal marito:

“O fermi la tua linea politica o la pagherai cara”.

La gestione del rapimento

L’episodio culmine che mette in totale contrapposizione le interpretazioni in merito alle BR riguarda il rapimento e poi l’omicidio dell’on. Aldo Moro, certamente uno dei fatti più gravi della storia repubblicana su cui è utile tornare.

Materiali: La posizione di Rifondazione Comunista

Le posizioni di Rifondazione Comunista su “Liberazione” e in Parlamento.

La stampa del nostro Partito è intervenuta sul tema anche con approfondimenti di rilievo. Per tutti ricordiamo la “controinchiesta” sulla vicenda Moro avviata sulle pagine di “Liberazione” nel maggio 2002 (pubblicazione di una serie di documenti sul ruolo oscuro dei servizi segreti e di Gladio in particolare) e l’attenzione riservata in quel periodo ai risultati delle perizie e alle risposte del governo alle interrogazioni parlamentari.

Il 16 Marzo 2003, nel venticinquesimo anniversario della strage di Via Fani e del rapimento dell’On. Moro, “Liberazione” pubblicò un inserto speciale di otto pagine ricco di documentazione e analisi (ad alcune delle quali sarebbe ancora oggi utile fare riferimento).

Il 6 Luglio 2005, un comunicato dell’Ufficio Stampa del Gruppo PRC Senato: “Se CIA e Mossad avevano infiltrato le BR prima del rapimento di Moro e ciò era noto ai servizi segreti deviati italiani e a giornalisti ad essi legati come Mino Pecorelli, esiste una complicità di Stati Uniti e Israele nella fine dello statista DC, reo di voler aprire le porte del governo ai comunisti”.

Gigi Malabarba, capogruppo PRC al Senato e membro del COPACO, commenta così le affermazioni rilasciate dall’ex vicepresidente del CSM e vicepresidente vicario della DC, Giovanni Galloni, in un’intervista a Rai News24.

“Ho presentato un’interrogazione al Presidente del Consiglio perché USA e Israele ai loro massimi livelli politici e di intelligence forniscano informazioni immediate, perché, se ciò fosse confermato, la storia del nostro paese andrebbe riscritta e personaggi screditati come Antonino Arconte (inviato dai servizi in Medio Oriente prima del rapimento di Moro per trattare il suo rilascio) presi in seria considerazione…”.

Il giorno prima Giovanni Galloni aveva ricordato un colloquio in cui Aldo Moro esprimeva le sue preoccupazioni perché, a fronte della certezza delle suddette infiltrazioni nelle BR, i due governi statunitense e israeliano e le loro intelligence non collaboravano con le autorità italiane competenti.

Immagine in bianco e nero di una stretta di mano tra il segretario comunista Enrico Berlinguer e il presidente democristiano Aldo Moro.
Sulla scena presenti diversi fotografi sullo sfondo.
Una stretta di mano tra il segretario comunista Enrico Berlinguer e il presidente democristiano Aldo Moro, via Wikipedia.

L’ipotesi politica di Moro sembra sul punto di concretizzarsi, sia pure nella forma di un ingresso del PCI nella maggioranza, ma non nell’esecutivo, attraverso un voto di astensione del PCI ad un governo monocolore democristiano. Ma quando Moro, il 16 marzo del 1978, sta recandosi in Parlamento per il voto di fiducia, viene intercettato a Via Fani  da un commando delle BR che lo rapiscono dopo avere ucciso i cinque uomini della sua scorta in un’azione militare semplicemente stupefacente.

Materiali: “I dubbi su Via Fani”

Con la collaborazione di F. F.

I fatti dimostrano che la versione contenuta nel Memoriale Morucci-Cossiga è piena di falsità. La requisitoria della Procura generale di Roma dell’11 novembre 2014 contiene una ricostruzione ben diversa della strage di via Fani e smentisce la versione dei fatti raccontata nel Memoriale Morucci-Cossiga.

Tra i punti più importanti:

* è dimostrato  che il commando BR ha sparato alla scorta anche dalla destra e non solo dalla sinistra della macchina di Moro (ma allora perchè negarlo?); i responsabili delle auto di scorta, e segnatamente l’espertissimo maresciallo Leonardi, dai sedili anteriori destri delle auto avrebbero avuto ben altre chance di rispondere al fuoco proveniente da parecchi metri alla loro sinistra, anzichè restare uccisi seduti ai loro posti (è questo uno dei punti fondamentali per comprendere l’intera dinamica dell’agguato; “destra” e “sinistra” si riferiscono al senso di marcia delle due auto scorta Moro, che percorrono via Fani in direzione incrocio Via Stresa).

* Le armi e gli assalitori che hanno sparato non sono affatto quattro ma almeno sette.

* I componenti del commando non sono nove ma necessariamente molti di più (il confronto è con il rapimento del giudice Sossi a Genova nel 1974, dove pur in assenza di scorta furono impiegati dalle BR diciotto uomini).

* Le armi utilizzate e le competenze militari dei quattro brigatisti che unici avrebbero operato non avrebbero determinato l’esito di “geometrica potenza” per diverse ragioni: il fattore sorpresa non sarebbe stato totale, per la relativa distanza delle piante del Bar Olivetti dietro le quali si nascondevano i brigatisti (Via Fani è anche a doppio senso di marcia); le armi dichiarate erano abbastanza obsolete; almeno due dei quattro brigatisti hanno avuto, per loro stessa ammissione, la propria arma inceppata; la preparazione militare dei brigatisti (come dichiarato anche da Renato Curcio) si presentava del tutto artigianale e non avvezza all’uso delle armi in combattimento, contro una scorta assai esperta che ogni giorno metteva nel conto un’aggressione.

* Dei 91 colpi sparati dai brigatisti, 49 provengono da un’unica arma e da un unico tiratore, dotato di addestramento militare molto specialistico (come attestato da testimoni). E si noti che nella intensa sparatoria Moro non viene neanche ferito. Nessuno dei quattro brigatisti, ufficialmente presenti secondo il Memoriale, si avvicina neppure lontanamente alle caratteristiche dei killer d’assalto di via Fani.

* Il fattore “sorpresa”, specialmente per il caposcorta, non è consistito nello stop della 128 familiare CD guidata da Moretti. Capace di prevenire al massimo i pericoli e preoccupatissimo per i rischi incombenti che percepiva da tempo, il maresciallo Leonardi (che aveva chiesto, invano, l’assegnazione di un’auto blindata) avrebbe avuto ben altra reazione se il fuoco fosse provenuto solo da sinistra. E infatti l’attacco si è sviluppato inizialmente davanti e da destra, a brevisssima distanza: sul vetro anteriore della 130 di Moro è ben visibile il foro della pallottola che ha ucciso l’autista brigadiere Ricci; nei pressi dell’Austin Morris lasciata distante dal marciapiede di destra (per ostacolare un possibile disimpegno della 130) sono rimasti alcuni bossoli dei colpi sparati a distanza molto ravvicinata contro il maresciallo Leonardi.

* La moglie di Moro si è sempre chiesta, anche nelle sedi ufficiali, come le BR fossero certe che il marito e la scorta quel giorno e a quell’ora passassero proprio per via Fani: il tragitto e gli orari variavano infatti in base agli impegni politici di Moro, mentre il maresciallo Leonardi non comunicava in anticipo a nessuno l’itinerario prescelto per quel giorno. Le chiese dove Moro seguiva giornalmente la messa erano poi almeno quattro.

* Che via Fani non fosse necessariamente il percorso giornaliero di Moro è confermato anche da un agente dell’altro turno di scorta, appena arrivato sconvolto sul luogo della strage a via Fani, e dal fioraio che ogni mattina lavora con il suo furgone all’incrocio tra via Fani e via Stresa (“L’Unità” 17.3.1978).

* Eppure è da fine gennaio 1978 che le BR sotto falso nome hanno richiesto al PRA di Roma l’indirizzo del fioraio, che abita in una via del centro storico. Già in quella data è dunque deciso che l’agguato deve avvenire in via Fani angolo via Stresa: perché? È un problema logico probabilmente decisivo. Per impedire al fioraio di essere un ingombrante testimone, nella notte precedente le BR tagliano tutte e quattro le gomme del mezzo; già solo questa operazione non si può ripetere tranquillamente altre volte. Da dove nasce la sicurezza che l’agguato certamente avverrà nel punto già prescelto?

* In ferie d’ufficio. L’Alfetta di scorta che segue l’auto di Moro è composta da tre agenti di PS. Il responsabile della pattuglia viene messo in ferie il 15 marzo nonostante non ne abbia fatto richiesta. Egli proviene da un comune calabrese vicino al quale c’è un forte insediamento di criminalità organizzata. A proposito dell’episodio delle ferie godute e non richieste, l’intercettazione ambientale di un colloquio svoltosi in carcere, ha permesso anni dopo di registrare la frase: “L’hanno voluto salvare”. Al posto del capopattuglia titolare, all’ultimo momento è comandato il giovane brigadiere Francesco Zizzi a coordinare gli agenti Giulio Rivera e Raffaele Iozzino.

* La Fiat 128 bianca e familiare targata CD. L’auto è rubata nella notte tra l’8 e il 9 marzo, la targa era stata asportata nell’aprile 1973 dall’auto dell’addetto militare dell’ambasciata venezuelana. Nella mattinata del 15 marzo. l’auto che l’indomani sbarrerà la strada alla 130 di Moro nella stessa via Fani compie manovre azzardate, ad alta velocità e con frenate improvvise. L’autista di una società privata evita per poco l’incidente, manda a quel paese l’auto-pirata e ne prende la targa, che corrisponderà a quella della strage (l’episodio e il testimone su “L’Unità” del 26.9.1978). Ancora la stessa auto è osservata da un testimone intorno alle 6:30 del 16 marzo sostare vicino alla casa di Moro, in una rientranza della carreggiata, con quattro persone a bordo. La sua attenzione è colpita anche da una striatura sulla fiancata, che effettivamente c’è sull’auto delle BR in via Fani. Quale logica c’è nel rischiare, per un sopralluogo, di “bruciare” il mezzo che dovrà bloccare di lì a poco il convoglio di Moro?

* L’autista di Moro non vuole perdere il contatto con la Fiat 128 familiare targata CD (delle BR). Nel 1993 un funzionario della Digos trasmette al Procuratore Aggiunto della Repubblica una nota che riporta informazioni assunte da fonte confidenziale. Dopo che la Fiat 128 familiare targata CD guidata da Moretti si è posta davanti alla 130 di Moro, due vetture si collocano casualmente tra la 130 e la 128. L’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, autista molto abile e da vent’anni con Moro, supera con una manovra repentina i due mezzi che si erano interposti, pur di ricollocarsi immediatamente dietro la Fiat 128 targata CD e seguìta subito anche dall’Alfetta di scorta. Perchè due carabinieri così esperti e che formano una coppia molto collaudata, non hanno esitazioni nel riprendere il contatto diretto con l’auto che tra pochi secondi sarà all’origine della propria morte? Da un comportamento apparentemente cosi insensato si potrebbe logicamente dedurre che la Fiat 128 familiare targata CD non rappresenti per loro una qualsiasi auto ma la prima auto del convoglio di scorta a Moro, forse il rafforzamento della scorta così intensamente richiesto (invano) dal maresciallo Leonardi. Resta la prova contraria: lasciando andare il traffico stradale secondo il suo corso casuale, alla fine di via Fani lo stop improvviso della Fiat 128 CD guidata da Moretti probabilmente non avrebbe potuto aver luogo.

* A riposo d’ufficio e niente “bonifica” del territorio da percorrere. Alla II Commissione parlamentare d’indagine (2012-2017), l’agente di PS che ogni mattina aveva il compito di precedere la scorta di Moro osservando ogni eventuale anomalia prima del suo passaggio, riferisce che il 15 marzo 1978 è stato messo d’ufficio a riposo per il giorno seguente, pur senza averlo richiesto; nè viene sostituito, cancellando quindi per la mattina della strage un servizio di prevenzione così importante. Il commando stragista può quindi operare indisturbato.

* Quanti sono i brigatisti in divisa Alitalia? Morucci riferisce di essere arrivato nella parte bassa di Via Stresa, oltre l’incrocio con via Fani, a bordo di una A112 con altri brigatisti in divisa Alitalia. Ma costoro non possono essere i quattro travestiti nello stesso modo che scendono a piedi dalla parte alta di Via Stresa (cioè dalla direzione inversa), procedendo a coppia e facendosi notare da numerosi testimoni. Un’altra conferma che gli attentatori in divisa Alitalia sono in numero maggiore dei quattro BR riportati nel Memoriale Morucci-Cossiga.

* Ma quale utilità c’era nel travestirsi da piloti Alitalia? C’è da rifletterci: una testimone incontra il gruppo dei quattro che scende a piedi e con naturalezza approfitta dell’occasione per chiedere notizie su un volo proveniente dall’America meridionale; un testimone conserva sufficienti ricordi dei tratti somatici tali da risultare utili per individuare uno dei quattro brigatisti del Memoriale Morucci-Cossiga. La decisione di travestirsi in questo modo appare del tutto priva di utilità e piena di rischi: prima dell’azione si resta più facilmente inosservati se vestiti con abiti ordinari, nei momenti della fuga la divisa è d’impaccio per molte ragioni; una divisa da pilota civile non sarebbe stata comunque sufficiente per tentare un approccio ingannevole verso la scorta, etc. E soprattutto: i brigatisti ufficialmente presenti in via Fani si conoscono tutti. Perchè quindi crearsi un inutile possibile problema? Non vi è spiegazione plausibile e razionale alla scelta, se non la necessità per persone che non si conoscono fra loro di individuarsi reciprocamente con certezza. Del resto gli attentatori che sparano sono almeno sette e non quattro. Nel Memoriale non si avrebbe avuto motivo di mentire sul numero, che poteva tranquillamente essere precisato senza necessità di svelare le identità dei singoli. Quindi è plausibile affermare che nel gruppo di fuoco vi erano elementi non conosciuti dalle BR e che anzi era necessario non venissero conosciuti né prima né dopo il blitz militare.

* L’auto dalla Questura arriva in Via Fani poco dopo la strage. In numerose foto si vede un’Alfasud parcheggiata di traverso e contromano sul marciapiede sinistro, un’autovettura della Questura centrale che secondo le testimonianze arriva sul posto prima delle 9:20. Sentito dalla II Commissione parlamentare d’inchiesta, l’autista ha ricordato che l’Alfasud partì dalla Questura poco dopo 8:30 con a bordo il dirigente Ucigos. Ma quale ragione, quale notizia può aver spinto il dirigente a muoversi così presto dalla Questura per raggiungere a tutta velocità via Trionfale e poi via Fani ben prima delle 09:05 quando viene dato l’allarme?

* I bossoli speciali di Via Fani. Secondo quanto accertato dai periti, numerosi proiettili utilizzati nella strage sono in dotazione a “truppe non convenzionali”, in quanto: a) coperti da una speciale vernice protettiva che ne garantisce una lunga conservazione anche se depositati in nascondigli sotterranei; b) manca su di essi l’indicazione della data di fabbricazione. Le domande rivolte dalla II Commissione parlamentare d’inchiesta alla ditta costruttrice non hanno ancora portato ad appurare gli Enti assegnatari di questo stock di proiettili o altri simili. Da notare come nel covo di via Gradoli siano state sequestrate alcune cartucce identiche a quelle usate in via Fani.

È noto l’epilogo della vicenda a seguito dei cinquantacinque giorni di prigionia dell’ostaggio, durante i quali i servizi nulla fanno per individuare il luogo della prigionia di Moro e il quadro politico dello Stato non fa neppure nulla per cercare di salvargli la vita (trattative con le BR, e anche pagamenti di riscatti, si erano invece verificati in altri casi: Sossi, D’Urso, Cirillo etc.).

E quando il papa Paolo VI rivolse un appello “agli uomini delle Brigate Rosse” perché liberassero Moro, sembra che qualcuno abbia fatto aggiungere le parole “senza condizioni”, che ne vanificavano del tutto l’efficacia.

Il comitato di crisi istituito da Francesco Cossiga presso il Viminale sarà interamente composto da uomini iscritti alla Loggia massonica P2, fra i quali, secondo Sergio Flamigni, anche tale Lucio Luciani, alias di Licio Gelli.

Fa parte del gruppo anche un uomo inviato dal Dipartimento di Stato USA, l’agente Steve Pieczenik. A più riprese costui denuncerà che le notizie oggetto di discussione nel comitato arrivavano sistematicamente alle BR, e anche quando il nucleo più ristretto si ridusse all’agente americano e allo stesso Cossiga, la fuga di notizie riservate continuò.

L’agente USA Pieczenik anni dopo, descrivendo il suo operato, ebbe a dichiarare:

“Allo stesso tempo era auspicabile che la famiglia Moro non avviasse una trattativa parallela, scongiurando il rischio (sic!) che Moro venisse liberato prima del dovuto (sic!). Ma mi resi conto che, portando la mia strategia alle sue estreme conseguenze, mantenendo cioè Moro in vita il più a lungo possibile, questa volta forse avrei dovuto sacrificare l’ostaggio per la stabilità dell’Italia.”[11]

La morte di Moro, dallo stesso Pieczenik condivisa, era dunque il “male minore”, era necessaria per evitare che venissero alla luce notizie che l’Alleanza atlantica considerava top secret, in particolare (ma non solo) quelle relative a Gladio, l’organizzazione segreta che avrebbe dovuto intervenire nel caso in cui i comunisti avessero vinto le elezioni e fossero andati al potere.

Quella ed altre informazioni “sensibili” (il caso Sindona, il caso Giannettini e altri appunti su Cossiga) erano contenute nei memoriali di Moro.

Rimane misterioso, o sin troppo chiaro, il fatto che le BR – che pure avevano dichiarato la propria intenzione di “rivelare al popolo” l’intero esito del “processo” a Moro – non lo fecero mai, convergendo con l’imperiosa necessità della DC e degli Stati Uniti di occultare quei documenti[12].

C’è chi sostiene che tale omissione derivò dalla mancata comprensione da parte dei brigatisti dell’importanza politica di quelle rivelazioni. Solo dodici anni dopo, di fronte alla scoperta dei manoscritti di Moro, Giulio Andreotti fu costretto a rivelare in Parlamento (non senza avere manipolato il dato relativo agli aderenti) l’esistenza di Gladio.

Il memoriale Morucci-Cossiga

A partita sostanzialmente chiusa, nel 1990, intervenne il cosiddetto “Memoriale Morucci,”[13] sottoscritto anche da Adriana Faranda, entrambi dissociati, e successivamente, ribaltando le dichiarazioni rese in precedenza, accreditato come verità anche da Mario Moretti.

È molto importante, ed è molto inquietante, il fatto che questo Memoriale sia diventato la “versione ufficiale”, diffusa ancora dalla Rai-Tv nel 2018 in occasione del quarantesimo anniversario dell’omicidio di Moro, benché il “Memoriale Morucci” risultasse già smentito in parti decisive dalle risultanze della Commissione parlamentare d’indagine Moro 2 presieduta dall’on. Fioroni.

Appaiono certamente false o reticenti alcune parti essenziali: ad es. il vero numero (prima “molti”, poi dodici, infine nove, successivamente dieci) dei partecipanti alla strage di Via Fani e la loro identità; la circostanza che ben due mitra dei brigatisti, Morucci e Fiore, si siano stranamente inceppati[14]; il percorso fatto con il rapito a bordo (era certamente impossibile attraversare quella mattina Roma, già piena di posti di blocco, dalla Cassia fino al quartiere Portuense); il vero luogo di detenzione di Moro, che secondo alcuni non fu affatto via Montalcini; la soluzione del “mistero di Via Gradoli”, un nome che sarebbe emerso da…una seduta spiritica (sic!) a cui partecipò anche Romano Prodi[15] (ma senza che né Prodi né gli altri partecipanti fossero adeguatamente indagati per sapere da chi veramente avessero avuto quell’informazione); il luogo, gli autori e le vere modalità dell’esecuzione, dato che se veramente Moro fosse stato ucciso nel bagagliaio della Renault rossa in cui fu ritrovato questo sarebbe dovuto essere inondato dal suo sangue che invece manca quasi del tutto, etc.

Ma soprattutto il “Memoriale Morucci” (283 pagine, con allegati cinque fascicoli) dovrebbe essere piuttosto denominato “Memoriale Cossiga”, dato che esso non venne consegnato da Morucci ai giudici ma fu fatto pervenire a Cossiga (al tempo Presidente della Repubblica) tramite il giornalista del quotidiano della DC Remigio Cavedon, che lo restituì poi a Morucci.

Circa un mese dopo, e dopo averlo fatto passare anche per le mani del Capo della polizia, Cossiga si decise nel maggio del ’90, a inoltrare il “Memoriale”, riveduto e corretto, alla magistratura.

Il testo nel suo insieme è un garbuglio di contraddizioni, di autentiche falsificazioni smontate dalla Terza Relazione della Commissione Moro 2 la quale ha messo in luce “l’incongruenza delle ricostruzioni di Morucci su punti non secondari”, al punto che la Commissione parlamentare ha potuto affermare che si tratta di “un elaborato interno agli apparati di sicurezza”.

E allora a cosa è servito il Memoriale Morucci-Cossiga? Essenzialmente a costruire una verità ufficiale, “dicibile”, tale da archiviare la vicenda Moro con un patto preciso: stabilire la purezza rivoluzionaria delle BR e la responsabilità esclusiva del gruppo brigatista nel sequestro e nell’uccisione di Aldo Moro.

Perché Cossiga ha collaborato nella stesura del memoriale con Morucci? Semplicemente perché doveva autoassolversi dall’accusa più grave: l’esistenza di un connubio degli apparati dello Stato che agivano sotto il suo controllo con le BR, e non aver salvato la vita di Moro.

Immagine in bianco e nero di una scritta su un muro che recita "Kossiga vattene".
Tipica scritta sui muri del movimento nel ’77, via Wikipedia.

Il co-autore del Memoriale, Francesco Cossiga, aveva già mentito a proposito di Gladio e delle strutture militari segrete, aveva mentito in Parlamento a proposito dell’impiego di squadre speciali armate in borghese nei cortei e dell’uccisione di Giorgiana Masi, aveva mentito negando di aver avvisato Donat Cattin delle indagini sul figlio terrorista, aveva sospeso in spregio alla Costituzione il diritto di manifestare a Roma per un mese, aveva gestito – nel modo che abbiamo visto – le indagini sul rapimento di Moro: tutto ciò non impedì al PCI, dopo la morte di Berlinguer, di votare Cossiga alla Presidenza della Repubblica nel luglio 1985 (Cossiga fu eletto al primo scrutinio con la maggioranza schiacciante di 752 voti su 977 votanti).

La principale novità offerta dalla Commissione Moro 2 è stata dunque proprio la dimostrazione che intorno al più grave delitto politico della storia repubblicana, nel corso degli anni Ottanta fu costruita una verità di comodo, “dicibile al paese”, condita di plateali menzogne, che circoscriveva la verità ai soli brigatisti, per nascondere la verità “indicibile” e cioè che l’omicidio di Moro aveva visto il coinvolgimento diretto dei Servizi, con la complicità, a vari livelli di apparati stranieri.

In definitiva la stabilizzazione di una finta verità, un vero e proprio patto di omertà, in gran parte riuscito fino a oggi, ma a caro prezzo: quello di sacrificare la piena comprensione del caso Moro e la consapevolezza delle forze che hanno congiurato durante i cinquantacinque giorni, determinandone l’esito tragico.

In quei cinquantacinque giorni fu realizzato quello che, forse non tecnicamente ma certo sostanzialmente, per gli effetti che produsse nella situazione politica italiana, si può considerare come l’equivalente di un colpo di Stato riuscito.

Materiali: La storiografia sul terrorismo di sinistra e le BR

Ricchissima, e anche assai differenziata, è la riflessione storiografica sul fenomeno terrorista in Italia e in particolare sulle BR e l’assassinio di Moro.

Si tratta comunque di un periodo storico da analizzare nella sua complessità e non legandosi a singoli episodi o alle loro interpretazioni, parte di quel lungo Sessantotto, pieno di contraddizioni e in cui diverse soggettività hanno interagito non sempre in maniera trasparente.

A detta di alcuni studiosi si è trattato di un fenomeno, con diverse intensità, eterodiretto dagli stessi apparati dello Stato che sostenevano il terrorismo neofascista.

Costoro adducono come prove le testimonianze di ex-terroristi, la scoperta di alcuni infiltrati, soprattutto quando nasceva l’organizzazione (primi anni Settanta) e nella sua seconda fase (dopo il 1976), alcuni episodi rimasti non chiari né dal punto di vista storico, né giudiziario che lasciano adito a perplessità.

Una storiografia forse meno interna al conflitto che in tale periodo si produsse fra il mondo dell’eversione armata e la sinistra storica, parte da un presupposto radicalmente diverso.

Le BR e le altre organizzazioni simili nate e morte in venti anni, sono state il frutto malato di una reazione da una parte alla strategia della tensione, dall’altra a una sinistra che aveva rinunciato a velleità rivoluzionarie in funzione del miglioramento delle condizioni di vita e democratiche delle classi popolari.

Per gli studiosi di cui sopra, per esempio Sergio Flamigni, il sequestro Moro fu un’operazione resa possibile dal sostegno diretto o indiretto di forze internazionali (gli USA e la CIA in particolare), dalla complicità con gli apparati dello Stato di alcuni degli esecutori materiali del sequestro, da relazioni quantomeno ambigue con mondi come la ‘ndrangheta, apparentemente distanti da ogni fenomeno eversivo.

Per altri, ad esempio Vladimiro Satta, tale operazione fu resa possibile da una totale impreparazione degli apparati di intelligence (in altre losche faccende affaccendati) e dal fatto che l’organizzazione che realizzò e gestì il sequestro agiva con un proprio autonomo progetto politico.

La controprova addotta è nelle infinite “Commissioni di inchiesta” nei vari filoni del processo agli autori che portò a comminare ben 32 ergastoli.

Due Commissioni di inchiesta parlamentare, ben cinque processi sull’affare Moro e l’imponente lavoro di ricerca condotta da Gero Grassi, Sergio Flamigni, Miguel Gotor, Giovanni Fasanella, Carlo D’Adamo e James Hepburn Jr, Emanuele Montagna e Franco Soldani, sia pure con approcci politicamente diversi,metteranno in luce una quantità incredibile di evidenze che dimostrano (a partire dal giorno dell’agguato di via Fani e poi per l’intero tempo della prigionia di Moro) i depistaggi e i contatti fra i brigatisti e i servizi, italiani e stranieri.

Eterogenesi dei fini? Convergenze parallele? Infiltrazioni esplicite dei servizi sino ai livelli più alti dell’organizzazione? C’è un po’ di tutto ciò nella sporca vicenda. E c’è un altro dato, inconfutabile: tutti i soggetti in campo, le BR, i servizi italiani, l’establishment statunitense, e anche quei settori dell’Autonomia al cui serbatoio le BR hanno attinto per reclutare i propri quadri e i propri fiancheggiatori, avevano in comune lo stesso obiettivo strategico: impedire che l’operazione politica concordata fra Moro e il PCI andasse in porto. Come lucidamente ha scritto Gianni Barbacetto:

“C’è una lunga stagione della storia italiana in cui forze sotterranee e occulte si sono di volta in volta incrociate, sommate o scontrate con le forze visibili della politica, dell’economia, della società in una guerra segreta tra l’Occidente e il blocco comunista. Una guerra a bassa intensità, non ortodossa, non convenzionale, che però ha provocato tantissime vittime e ha inquinato per sempre la vita della nostra Repubblica. Oggi questa guerra è finita, ma la verità resta indicibile.

E i processi – piazza Fontana, piazza della Loggia, Italicus, Gladio, P2 – si chiudono e si riaprono, senza quasi mai poter accertare in via definitiva i colpevoli. Due generazioni di magistrati si sono spesi a cercare la verità. Sono sempre stati fermati poco prima di svelarla.

Eppure, le loro inchieste e le loro sentenze hanno dimostrato che, senza l’intervento dei servizi e le coperture internazionali, non una delle stragi italiane sarebbe stata commessa e, se commessa, non sarebbe potuta rimanere impunita. E che solo guardandole tutte insieme se ne può capire il senso.

Perché il “Grande Vecchio” (denominazione adottata per indicare l’esistenza di un occulto manovratore, ndr) altro non è che un sistema di poteri. Nel quadro della guerra fredda e della sovranità limitata dell’Italia, alla legalità ufficiale si è sostituita una “legalità” sotterranea con regole inconfessabili che, al di là degli obiettivi iniziali, è cresciuta a dismisura: l’eversione di Stato ha nutrito la corruzione politica e si è saldata con la criminalità organizzata”.

Per saperne di più


  • G. Bocca, Noi terroristi. 12 anni di lotta armata ricostruiti e discussi con i protagonisti, Milano, Garzanti, 1985.
  • AA. VV, Taci, il SISDE ti spia, Roma, Editoriale L’Espresso, 1994.
  • S. Flamigni, La prigione fantasma. Via Gradoli 96 e il delitto Moro, Milano, Kaos edizioni, 1999.
  • S. Flamigni, Convergenze parallele. Le Brigate rosse, i servizi segreti e il delitto Moro, Milano, Kaos edizioni, 1998.
  • S. Flamigni, Patto di omertà. Il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro: i silenzi e le menzogne della versione brigatista, Milano, Kaos edizioni, 2015.
  • S. Flamigni, Il covo di Stato e la prigione fantasma. Il delitto Moro in via Gradoli e in via Montalcini, Milano, Kaos edizioni, 2016.
  • R. Di Giovacchino, Il libro nero della Prima Repubblica, Roma, Fazi, 2005.
  • Giorgo GALLI, Piombo Rosso. La storia completa della lotta armata dal 1970 a oggi, Milano, Baldini e Castoldi, 2004.
  • A. Giannuli, Il noto servizio. Giulio Andreotti e il caso Moro, Milano, Tropea, 2011.
  • M. Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano, Torino, Einaudi, 2013.
  • Carlo D’ADAMO – James Jr HEPBURN, Coup d’etat in via Fani (La NATO contro Moro e Iozzino), Bologna, Pendragon,2018.
  • Giuseppe DE LUTIIS, Il golpe di Via Fani, Sperling&Kupfer/l’Unità, 2007.
  • Sergio FLAMIGNI, Rapporto sul caso Moro (Il sequestro di Aldo Moro, Steve Pieczenik e il golpe atlantico quarant’anni dopo), Roma, Kaos Edizioni, 2019.
  • Alfredo Carlo MORO, Storia di un delitto annunciato (Le ombre del caso Moro), Roma, Editori Riuniti, 2018 (prima edizione 1998).
  • Giovanni DE LUNA, Le ragioni di un decennio, Milano, Feltrinelli, 2020.
  • Emanuele Montagna – Franco Soldani (Collettivo Faremondo), “Lei la pagherà cara”. Cabina di regia Usa, Vaticano e apparati di stato dietro l’affare Moro, Bologna, Pendragon, 2000.
  • G. Fasanella, Il puzzle Moro. Da testimonianze e documenti inglesi e americani desecretati, la verità sull’assassinio del leader DC, Milano, Chiarelettere 2018.
  • A.Greco – G. Oddo, Lo Stato parallelo, La prima inchiesta sull’ENI tra politica, servizi segreti, scandali finanziari e nuove guerre. Da Mattei a Renzi, Milano, Chiarelettere 2016.

    L’intero Archivio di Sergio Flamigni è stato reso disponibile alla consultazione e alla lettura: cfr. “Archivio Flamigni”, direttrice Ilaria Moroni, Piazza Bartolomeo Romano 6, 00154 Roma, all’interno di “Memo, spazio di storia e memorie”, cell. 3357660067, tel. 0651684153, info@archivioflamigni.org.

[1] Anche Democrazia Proletaria entrò per la prima volta in parlamento con 6 deputati.

[2] Così chiamata dal luogo del convegno sindacale del gennaio 1978.

[3] Lo strappo è fortissimo, la reazione di Berlinguer è gelida, come racconta lo stesso Lama in una lunga intervista a Giampaolo Pansa del 1987, dove l’ex segretario della CGIL racconta retrospettivamente e senza veli la dimensione tutta politica di un dissenso radicale che assumerà i tratti di una vera rottura che coinvolgerà, in dimensioni e qualità crescenti, l’insieme del gruppo dirigente del PCI per esplodere con durezza estrema durante la vicenda Fiat, nel 1980 e con lo scontro sulla scala mobile, nel 1984.

[4] Si veda la decisione del segretario della CGIL Luciano Lama di tenere un comizio nell’Università di Roma occupata, preceduto da una campagna di stampa che invocava lo sgombero delle occupazioni considerate estremistiche, e senza nemmeno concedere la parola agli occupanti. Ne deriverà un duro scontro fra gli occupanti e il servizio d’ordine sindacale culminata nella cosiddetta “cacciata di Lama” (17 febbraio 1977).

[5] A. Gramsci, “Spontaneità e direzione consapevole”, in Q. 3, par .48, vol. I, pp.328-331 (331).

[6] Nel caso dei fascisti: i colpevoli condannati hanno beneficiato di infinite protezioni  per poter espatriare in America Latina o altri luoghi senza scontare un solo giorno di galera, non hanno mai ammesso le proprie responsabilità, e i  loro rapporti con gli apparati dello Stato erano e sono  ricostruibili in maniera completa; mentre nel caso del terrorismo rosso:  pochissimi sono stati coloro che sono riusciti a fuggire, quasi tutti hanno  rivendicato ogni atto criminale compiuto, e,  in caso di arresto, si dichiaravano “prigionieri politici”  continuando a rivendicare in carcere crimini commessi da altri e scontando nella maggior parte dei casi pene detentive durissime.

[7] Cesare BERMANI, Il nemico interno. Guerra civile e lotte di classe in Italia (1943-1976),  Roma, Odradek, 2003, p. 327.

[8] Ibidem, p. 328. “La Brigate Rosse all’inizio del 1976 sembravano destinate a scomparire, ma fu permesso loro e ad altri gruppi terroristici come Prima Linea, di crescere nuovamente nei diciotto mesi successivi.” (Paul GINSBORG, Storia dell’Italia dal dopoguerra ad oggi…, Torino, Einaudi, 1989, vol. II, p.513). 

[9] Una paradossale forma di disenso verso le BR fu anche la creazione di organizzazioni simili caratterizzate da una  presunta “appartenenza ai movimenti”, dai Nap, a Prima Linea, alle UCC etc. in un  crescendo altrettanto dannoso.

[10] Cfr. Renato CURCIO, La mappa perduta, Roma, Sensibili alle Foglie, 1994; cit. da Giorgo GALLI, Piombo Rosso. La storia completa della lotta armata dal 1970 a oggi, Milano, Baldini e Castoldi, 2004.

[11] Emmanuel Amara, Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall’ombra, Roma, Cooper, 2008, pp. 102-103.

[12] Cfr. Sergio Flamigni, Convergenze parallele. Le Brigate rosse, i servizi segreti e il delitto Moro, Milano, Kaos edizioni, 1998; Id., Patto di omertà. Il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro: i silenzi e le menzogne della versione brigatista, Kaos edizioni, 2015.

[13] Valerio Morucci, il brigatista “buono”, che aveva nel portafogli l’indirizzo e il telefono dell’Università Pro Deo diretta dal religioso nonché agente della Cia padre Felix Morlion, dialoga con i Servizi segreti, fornisce loro note critiche su diverse questioni e si pone come punto di riferimento della politica carceraria. Tra il 1986 e il 1987 il rapporto Morucci/Sisde è “continuativo”. Morucci (in un primo tempo condannato all’ergastolo, poi a 23 anni e ammesso al godimento della semi-libertà) è dal 1994 libero. Egli è autore di libri, presentati anche a Casa Pound, e scrive per la rivista di geopolitica “Theorema”, il cui direttore responsabile è Salvatore Santangelo, direttore del centro studi della Fondazione “Nuova Italia”, presieduta da Gianni Alemanno. Ora Morucci lavora per una società di “intelligence” amministrata fino al novembre del 2014 dal generale Mario Mori, già parte dell’antiterrorismo ai tempi delle BR, poi a capo del Ros dei Carabinieri e del Sisde, il servizio segreto civile che ora si chiama Aisi. La società che ha dato il posto a Morucci è la “G Risk”, di proprietà del principale collaboratore di Mori, l’ex colonnello dei carabinieri ed ex dirigente dei servizi segreti Giuseppe De Donno, co-imputato con Mori a Palermo al processo “Trattativa Stato-Mafia”. (Fonte: Emiliano Liuzzi e Marco Lillo per il “Fatto Quotidiano”).

[14] E che tuttavia sarebbero stati in grado di uccidere cinque uomini armati della scorta (Oreste Leonardi, Raffaele IozzinoFrancesco ZizziGiulio RiveraDomenico Ricci) sparando decine di colpi senza tuttavia ferire l’ostaggio.

[15] Le indagini si rivolsero al paese di Gradoli e all’omonimo lago, e non alla via Gradoli, dove si trovava una sede delle BR. Un appartamento a via Gradoli risulterà anni dopo intestato ai Servizi e affidato ai NAR. Cfr. Sergio Flamigni, Il covo di Stato. Via Gradoli 96 e il delitto Moro, Milano, Kaos edizioni, 1999.