2.6 Lo squadrismo degli anni ’60-’70

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A Milano

Siamo nella Milano del 1975. Il ventiseienne Alberto Brasili sta passeggiando con la fidanzata Lucia Corna nelle vie del centro. Brasili, barba e capelli lunghi, indossa l’eskimo, l’indumento simbolo della contestazione giovanile, sintomo quasi certo di militanza attiva a sinistra. All’angolo tra piazza San Babila e via Mascagni stacca da un palo della luce un adesivo elettorale del Movimento Sociale Italiano. Il gesto è sufficiente ad attirare l’attenzione di cinque neofascisti che in quel momento stanno uscendo da un bar di corso Vittorio Emanuele.

Brasili viene ucciso con 5 pugnalate, mentre la fidanzata scampa la morte solo perché una delle coltellate inferte manca di pochi centimetri il cuore. “Li ho sentiti arrivare quando erano ormai alle nostre spalle  –  ha raccontato in seguito Lucia Corna  –  e ho visto luccicare le lame dei coltelli. Uno dei cinque mi ha afferrata e ha cominciato a colpirmi mentre gli altri si accanivano su Alberto”.

 Non è la prima morte violenta per mano dei “sanbabilini”  –  neologismo coniato dai cronisti di nera del tempo usato per indicare i giovani fascisti che popolano piazza San Babila, a pochi passi dal duomo di Milano . È però un omicidio dal peso particolare: colpisce per la futilità del pretesto. L’anno seguente il regista Carlo Lizzani ne trae un film, non senza tentativi di sabotaggio da parte dei fascisti, dal titolo San Babila ore 20: un delitto inutile.

Nel 1968 il senatore del MSI Gastone Nencioni affitta un locale in Corso Monforte, e ne fa la sede del movimento giovanile della destra radicale “Giovane Italia”, San Babila diventa il fortino dell’estrema destra milanese.

 L’estrazione sociale dei neofascisti che dalla loro roccaforte progettano attacchi violenti con modalità squadrista è perlopiù borghese, con una forte componente della “Milano bene”, anche se non mancano proletari. Pure dal punto di vista ideologico i sanbabilini sono un gruppo eterogeneo. Sotto l’etichetta generica di “estrema destra” coesistono posizioni distanti, quando non contraddittorie.

È rilevante la componente “evoliana ” –  che si ispira cioè a Julius Evola, filosofo che unisce l’antisemitismo e il razzismo ad una visione del mondo caratterizzata dalla magia e dall’occulto. C’è chi si dichiara tradizionalista cattolico e chi non ha remore nel definirsi nazional-socialista. Anche sull’influenza statunitense i giovani fascisti hanno opinioni diverse: la componente filo-atlantista si contrappone a quella che vede negli Stati Uniti il più grande nemico del popolo italiano, sostenitore di un materialismo nocivo al bene della nazione e dell’individuo.

 Ciò che permette a un coacervo di individui con uno spettro ideologico così ampio di non implodere e mantenersi unito in un solo fronte è il comune ripudio del comunismo e il ricorso sistematico alla violenza come modus operandi.

Il rifiuto della cultura sessantottina si manifesta anche esteticamente. Al fenomeno dei “capelloni” e dell’eskimo, “divisa” classica del militante di sinistra, si contrappone quella del sanbabilino: occhiali a goccia, stivaletti a punta, jeans, giubbotto militare o giacca in pelle. L’abbigliamento non è solo un fatto esteriore, ma determina l’appartenenza a uno schieramento politico e l’aderenza ai valori di cui quello schieramento si fa portatore.

Gli inizi degli scontri violenti risalgono però a qualche anno prima. Uno dei primi episodi riguarda un comizio tenuto in piazza San Babila il 16 marzo del 1969 dal MSI, in nome di un ritorno alla normalità negli atenei occupati dalla sinistra studentesca. Il clima si scalda quando la componente giovanile della militanza missina decide di dare il via a un corteo non autorizzato al grido di “All’armi siam fascisti!” che culmina in uno scontro violento con le forze dell’ordine.

 Solo un anno dopo, in seguito agli ennesimi scontri tra fascisti e forze dell’ordine, la sede di Corso Monforte della Giovane Italia si vede costretta e chiudere i battenti. Ciò non determina però la fine della San Babila nera, e anzi proprio nel biennio 1972-1973 gli scontri si fanno sempre più frequenti.

Nel febbraio 1972 hanno luogo una serie di attentati dinamitardi che colpiscono vari punti simbolici della sinistra milanese, tra cui la sezione del PCI “Aldo Sala” e la sede del quotidiano “L’Unità”. Gli atti terroristici vengono rivendicati dalle SAM  – Squadre d’Azione Mussolini  –  in cui militano i camerati di San Babila. 

Poco dopo la sede del partito comunista marxista-leninista di via Farsaglia viene data alle fiamme. A fine gennaio, dopo il funerale di uno studente di sinistra ucciso da un agente, le strade della città si infiammano di cortei e manifestazioni.

Al tentativo di un gruppo di manifestanti di attaccare la roccaforte sanbabilina, i giovani fascisti rispondono con le armi da fuoco. Il clima è ormai quello di una città sull’orlo della guerra civile e piazza San Babila è sempre più simile a una trincea.

Il “giovedì nero” di Milano

L’episodio più significativo è però quello ricordato come “il giovedì nero di Milano”. È il 12 aprile 1973, e i principali esponenti del MSI hanno organizzato un corteo contro la sinistra. Il giorno stesso, tuttavia, il prefetto Libero Mazza proibisce ogni genere di manifestazione pubblica fino al 25 aprile.

I neofascisti non accettano il divieto. Alle 17.30 piazza San Babila è invasa di bandiere tricolori e vessilli fascisti. La tensione sale improvvisamente. Un agente, colpito da un oggetto, chiude istintivamente lo scudo verso di sé. Ciò che il poliziotto preme contro il suo petto non è però un semplice corpo contundente, ma una bomba a mano Srcm-35 che esplode uccidendolo.

L’anno seguente, a pochi giorni dal verdetto del processo contro i colpevoli del giovedì nero, Brasili perde la vita per aver staccato un manifesto fascista da un palo della luce. La morte del giovane di sinistra (da cui siamo partiti) non è quindi un episodio isolato: è piuttosto il risultato a cui ha condotto un clima di terrore e violenza covato per anni in un ambiente pericoloso.

Il giovedì nero di Milano segna un punto di non ritorno per i sanbabilini. Il fortino perde lentamente la sua valenza simbolica e una parte dei fascisti che lo popolavano va ad ingrossare le file del terrorismo.

Materiali: Per ricordare. I nomi dei compagni uccisi da polizia e/o fascisti a Milano

A cura di Federico Federici

  • Giovanni Ardizzone​, ventuno anni, ucciso nel centro di Milano  il 27 ottobre 1962 da una delle tante camionette della Celere scagliate contro una manifestazione popolare per la pace, in  occasione dello sciopero generale indetto dalla Cgil contro i  pericoli di guerra e in solidarietà con il popolo cubano.
  • Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico ucciso nei locali della Questura di Milano il 15-12-1969.
  • Saverio Saltarelli, ​ventitre anni, lavoratore-studente a Giurisprudenza emigrato da Pescasseroli (Aq) a Milano, dove viene ucciso il 12 dicembre 1970 nel primo anniversario della strage di Piazza Fontana. È colpito in pieno petto da un candelotto lacrimogeno, sparato da pochi metri ad altezza d’uomo da un reparto di polizia, che continua l’attacco a un corteo anarchico fin nei pressi dell’Università Statale contro un presidio antifascista del Movimento Studentesco.
  • Roberto Franceschi, ventuno anni, studente alla Bocconi, è ucciso davanti la sua università da uno dei numerosi colpi di pistola sparati alle spalle da un reparto di polizia, presente per impedire  che studenti di altri istituti e lavoratori partecipassero a una  assemblea aperta. Colpito a morte, spira la sera del 23 gennaio 1973 dopo sette giorni di agonia.
  • Claudio Varalli, diciassette anni, studente del I. T. Turismo. Il 16 aprile 1975, mentre torna con altri compagni da una manifestazione per il diritto alla casa (contro lo sgombero effettuato in mattinata della casa albergo occupata), viene ucciso a Milano in piazza Cavour da un fascista che insieme ad altri esplode numerosi colpi di pistola.
  • Giannino Zibecchi, ventisette anni, insegnante di educazione fisica, viene travolto e ucciso da un camion dei  carabinieri il 17 aprile 1975. È il giorno successivo l’uccisione di Claudio Varalli e a Milano, come in tutta Italia, vi sono grandi mobilitazioni antifasciste. La protesta si sposta successivamente verso la sede provinciale del MSI e qui nascono scontri con le forze di polizia. Mentre la situazione appare tornata tranquilla, una colonna di camion dei carabinieri piomba in Corso XXII Marzo a grande velocità sui manifestanti e Giannino muore orribilmente schiacciato.
  • Alberto Brasili​, diciannove, lavoratore studente, frequenta l’ultimo anno dell’Istituto Tecnico “Settembrini”. La sera del 25 maggio 1975 insieme alla fidanzata è assalito alle spalle da numerosi fascisti provenienti da piazza San  Babila: lo vogliono colpire per un suo precedente gesto di disapprovazione verso un manifesto fascista, per l’eskimo e i capelli lunghi. Il compagno Brasili è stato assassinato dai fascisti con colpi di coltello. Inseguito fino a via Mascagni è qui colpito  ripetutamente, muore per un colpo al cuore mentre la fidanzata è  ferita gravemente.
  • Gaetano Amoroso, ventuno anni, studente-lavoratore, frequenta l’ultimo anno dell’Istituto arti grafiche del Castello Sforzesco, che oggi porta il suo nome. La sera del 27 aprile 1976 è aggredito alle spalle da almeno otto fascisti, noti picchiatori, usciti dalla vicina sede MSI di via Guerrini. Caduto a terra viene ripetutamente accoltellato da più fascisti e muore tre giorni dopo in ospedale; due altri compagni sono feriti gravemente. –Lorenzo Iannucci e Fausto Tinelli, diciotto anni entrambi, sono giovani di sinistra impegnati nel Centro sociale Leoncavallo a Milano. Lorenzo, detto Iaio, frequenta l’Istituto professionale Settembrini dove ha iniziato la sua attività politica col Coordinamento degli Istituti professionali. Fausto frequenta il Liceo  artistico di via Hayeek  e proprio nel Centro sociale Leoncavallo  ha avuto le sue prime esperienze di attività politica. I due compagni sono attivi e apprezzati nel Centro, dove lavorano in iniziative di aggregazione culturale, sportiva, lavorativa. Erano anche impegnati iniziative contro lo spaccio della droga. La loro uccisione apparve subito un’esecuzione preordinata. Nessuno sarà individuato e condannato per il duplice delitto.
Immagine a colori di un gruppo di fascisti marciano inquadrati militarmente a San Babila.
Fascisti marciano inquadrati militarmente a San Babila.

A Roma

Nella Capitale, i fascisti avevano sempre goduto di una solida base di consenso, genericamente anticomunista, ma pronta a fornire su richiesta i voti alla destra, quei voti che avevano contribuito a rendere il MSI il terzo partito della Capitale.

Il ricordo degli scioperi studenteschi degli anni Cinquanta in favore di “Trieste, Istria e Dalmazia italiane” o contro l’invasione sovietica dell’Ungheria, erano negli anni ’70 ancora vivi nella testa dei caporioni missini che avevano mal digerito lo spostamento a sinistra dei giovani romani, iniziato a metà anni sessanta e uscito sempre più rafforzato dall’esperienza del ’68.

L’avanzata del PCI, l’impegno di migliaia di giovani nelle scuole e nei quartieri, mai coinvolti prima nella politica, aveva infatti profondamente mutato gli equilibri nella città. Questo per i vertici del partito di Almirante non era tollerabile, l’indicazione lanciata ai propri militanti era quella di contendere fisicamente alla sinistra il terreno politico, agendo sistematicamente e militarmente nei quartieri e nelle scuole, ovunque esistessero situazioni di intervento politico dei compagni.

Questa strategia si rifletteva nella presenza dei fascisti sul territorio di Roma, città composita per connotazione sociale e orientamento politico.

Se nelle città del Nord, circondate da un hinterland tradizionalmente schierato a sinistra, c’erano gli operai pronti a scendere in città per bilanciare il peso politico di un centro cittadino borghese e tendenzialmente conservatore, Roma si presentava con una connotazione geopolitica a “macchia di leopardo”, con zone popolari schierate a sinistra confinanti con altre di opposto segno politico, in centro città come verso i quartieri più periferici.

Esistevano zone interdette per la sinistra, dove la lunghezza dei capelli poteva costarti se andava bene una sprangata, con una contrapposizione fisica ad alta intensità, che per reazione indirizzava il sentimento antifascista verso una pratica militante quotidiana. Oltre che nelle zone tradizionalmente “nere” (Parioli, Balduina, Trieste, Vigna Clara, Eur, Piazza Bologna) il MSI teneva aperte sezioni anche nei quartieri popolari, usandole come avamposti militari per spedizioni punitive.

Con gli stessi fini tenevano aperte le sedi del Fronte della Gioventù e del FUAN poste strategicamente in prossimità dei Licei politicamente più attivi e dell’università La Sapienza. Ad agire i professionisti del pestaggio, picchiatori sperimentati, uomini fatti e non solo pischelli esaltati, spesso armati di pistola, ex-repubblichini di Salò, a volte mercenari reclutati tra i disoccupati.

In questo clima di contrapposizione, la garanzia dell’agibilità politica a scuola come nel quartiere era per tutti i compagni stimolo all’organizzazione, la pratica antifascista da reazione spontanea necessaria si trasformava in iniziativa militante, portando nell’intervento politico quotidiano la parola d’ordine della “Messa Fuori Legge del MSI”.

Le Università, e in particolare quella di Roma, erano teatro di ricorrenti azioni squadristiche, sempre tollerate da PS e Rettore[1].

Il 27 aprile 1966, mentre si svolgevano le elezioni per gli organismi rappresentativi, una squadraccia (composta da personaggi tutti ben noti alla polizia) assalì per l’ennesima volta gli studenti sulla scalinata della Facoltà di Lettere. Un giovane di 19 anni, colpito duramente, svenne e precipitò nel vuoto trovando la morte.

Era Paolo Rossi, studente di Architettura, dell’UGI[2], già socialista e boy scout. I fascisti e la stampa di destra (sostenuti dal Rettore del tempo) cercarono di presentare Paolo come un malato di epilessia che sarebbe caduto da solo, ma per loro sfortuna la famiglia di Paolo (il padre era stato partigiano nei cattolici-comunisti) poté dimostrare, certificati e foto alla mano, che Paolo non solo era sanissimo ma era anche alpinista e impegnato come studente di Architettura nel fare foto arrampicandosi sui campanili.

Ai funerali di Paolo Rossi, il prof. Walter Binni, antifascista e già membro dell’Assemblea Costituente, tenne un memorabile discorso, a cui seguì l’occupazione dell’Università, che ebbe fine solo dopo aver ottenuto le dimissioni del Rettore Papi e la rimozione del Commissario di PS.

Materiali: L’orazione funebre del prof. Binni al funerale di Paolo Rossi

Orazione funebre per Paolo Rossi, pronunciata a Roma il 30 aprile 1966.[1] 

Abbiamo accompagnato la salma di Paolo Rossi nel suo ultimo percorso verso la tomba, abbiamo già vissuto e sofferto il momento del distacco delle sue spoglie, il momento del “mai piú” che lascia ogni uomo incredulo, e impersuaso, colmo di dolore di fronte alla cesura inesorabile della morte, alla perdita della persona irripetibile, fonte del nostro inesausto rimpianto, della nostra non accettazione di un “fatto” di cui nessuna saggezza, nessuna fede possono effettivamente, interamente dar ragione e consolare.

Paolo Rossi non è piú qui con i suoi amici, con i suoi compagni, con i suoi genitori, con la sua sorella. Non sarà piú, come poteva e doveva essere, per la sua età e vitalità, diretto promotore di incontri, di amore, di colloquio, di opere, di atti di vita.

Egli scompare dalla terra nell’età della primissima gioventú, quando egli piú ardentemente si apriva alacre e puro, originale e creativo, agli impegni piú intensi della cultura, dell’arte, della società, a cui era chiamato, e già partecipava, dalle sue native qualità e dall’educazione alta, esemplare, aperta, e serenissima che aveva avuto dai suoi genitori. Enzo e Tina, artisti e persone di altissima sensibilità intellettuale e morale, i miei cari amici degli anni di una gioventú tormentata e illuminata dalla Resistenza al fascismo e al nazismo (quando essi furono combattenti per la libertà) e dalle indimenticabili e brevi speranze della Liberazione, nella nostra città di Perugia, alla cui bellezza profonda e severa, al cui paesaggio spontaneo e luminoso la mia mente commossa non può non associare quei ricordi lontani, e l’affetto per quel giovane umbro.

Dalla città natale Paolo era venuto ancora bambino a Roma e qui era cresciuto fra i primi studi e la scelta decisiva dello studio dell’arte e dell’architettura che lo portò, all’inizio di questo anno accademico, sui 19 anni, ad iscriversi alla Facoltà di architettura, dove frequentava, con avidità di cultura e con rigore intransigente di appassionato e lucido giudizio, le lezioni di Zevi, e di Quaroni, che sarebbero stati i suoi maestri liberi e congeniali e che ora lo piangono insieme agli amici e agli estimatori di lui e dei suoi genitori.

Paolo, a Roma fin da ragazzo, aveva associato allo studio, all’amore profondo dell’arte di cui avidamente seguiva tutte le manifestazioni, nella letteratura, nel teatro, nella musica, anche l’amore per l’attività sportiva che aveva contribuito a rendere particolarmente vigoroso il suo corpo snello ed elegantissimo, e che aveva variamente esercitato insieme al suo bisogno di vita associativa nello scoutismo cattolico. Cosí come lo ricordano anche quei padri canadesi della sua parrocchia e della sua associazione, i quali hanno voluto spontaneamente e pubblicamente ricordare, in questi giorni tristissimi, accanto alle sue qualità morali e intellettuali, anche la sua robustezza e prestanza, di contro ai turpi tentativi di spiegare la sua tragica morte come dovuta a malattia e a debolezza fisica e nervosa, assurda in chi, sciatore e rocciatore, sarebbe stato colto da capogiro e vertigine su di un muretto alto pochi metri.

Forte e padrone delle sue forze fisiche e morali, Paolo viveva intensamente il frutto della sua natura e della sua educazione familiare, in un costume di lealtà assoluta, di chiarezza mentale e morale, di volontà e coraggio di verità, su cui egli aveva fondato anche la sua religiosità aperta e spregiudicata. Né questa, in lui cosí autentica e ricca di prospettive di svolgimenti e di ampliamenti culturali, gli aveva in alcun modo precluso scelte politiche decise nel campo democratico di sinistra fino alla sua iscrizione alla Federazione giovanile socialista, in cui egli intendeva portare e realizzare – anche con salutare e giovanile impazienza e irrequietezza – il suo bisogno di lotta per la giustizia sociale di tutti e per tutti, per la libertà di tutti e per tutti.

In questi ultimi mesi, nel contatto con l’università e con le offerte culturali piú valide e aperte, egli si veniva rapidamente maturando sempre meglio, unendo e articolando le sue esigenze di impegno culturale e politico che lo avevano coerentemente portato a prendere subito posizione nelle associazioni studentesche democratiche coerenti alla sua prospettiva socialista, a partecipare ad una lotta decisa – pur nel suo bisogno profondo di apertura, di persuasione, di rifiuto di ogni forma di violenza e faziosità – contro le forze dell’incultura, della rozzezza mentale e morale, del terrorismo teppistico, con cui egli si trovò subito in netto, intransigente contrasto.

Ora, nell’apertura piú luminosa della sua giovane vita, nell’impegno dell’esercizio piú attivo ed intero della sua purezza morale, della sua intelligenza, della sua fantasia fervida, egli è stato violentemente, bruscamente, drammaticamente, strappato alla vita, al futuro, agli amici, ai compagni, ai maestri, ai genitori.

Nulla ci può ripagare della sua scomparsa, della perdita della sua presenza sensibile, su cui, chi lo conobbe e anche chi solo lo ha, in questi giorni, «conosciuto» nelle fotografie e nella descrizione degli amici, ha lungamente e tristemente fantasticato, vagheggiando affettuosamente i tratti puri, l’inclinazione e il taglio del suo volto lieto e pensoso, intelligente e intensamente serio.

Ora egli e noi siamo stati privati di tutto ciò.

Ma non dal caso, da un incidente fortuito, secondo una vile riduzione della sua morte e del significato di questa, a cui ci opponiamo con tutte le forze del nostro sdegno e del nostro disprezzo morale, umano, civile.

Perché altrimenti saremmo qui riuniti in una vastissima assemblea di docenti, studenti di Roma e del resto d’Italia, uomini di cultura, lavoratori, uomini politici, parlamentari di tutti i partiti antifascisti, fino al vicepresidente del Consiglio Pietro Nenni, al segretario del Partito socialista De Martino, i quali questa sera visiteranno ufficialmente le facoltà occupate?

Perché altrimenti tutte le facoltà di architettura d’Italia sarebbero chiuse e tante università chiuse od occupate con la bandiera a lutto?

Perché altrimenti la parte migliore e piú vera dell’Italia sarebbe qui presente o realmente o attraverso messaggi e manifestazioni che si svolgono contemporaneamente in tante altre città italiane?

Perché allora il Paese sarebbe, com’è noto, scosso da un moto profondo di dolore, di collera, di protesta, di volontà di lotta, in uno di quei rari momenti della verità e della coscienza, che contano piú della politica pratica e che sono le radici profonde della stessa politica e della stessa azione concreta?

Perché, perché è morto Paolo Rossi?

Anzitutto perché egli era un giovane democratico e antifascista, e in Italia, dopo la Liberazione, da tempo muoiono violentemente solo i democratici e gli antifascisti! Tale sua qualità lo designava insieme agli altri giovani democratici antifascisti alle aggressioni brutali, alla abbietta volontà distruttiva di quei gruppi di azione squadrista che da tempo agiscono indisturbati e incoraggiati nell’Università di Roma esercitando, con pertinace bestialità, quel costume di violenza, ancora pubblicamente difeso e propagando fino in Parlamento da quei tetri straccioni intellettuali e morali che danno l’avvio ai giovani teppisti.

Straccioni e teppisti e, a livello piú profondo, sventurati che cercano con l’attivismo squadrista e la violenza, di compensare la loro incapacità a vivere nella dimensione e nella misura degli uomini veri, essi che non hanno nulla capito della vita e della storia, nulla della civiltà, nulla dell’umanità, di cui essi rifiutano e spezzano i vincoli profondi, nulla delle parole inutilmente rivolte loro da chi si sforza (e con quanta fatica e ripugnanza!) a volerli considerare pur uomini, a proporre loro una superiore legge di discussione, di rispetto dell’avversario, invece della sua distruzione fisica.

Ma Paolo è morto anche perché troppo grande è la sproporzione, la tragica sproporzione del nostro Paese fra una maturazione vasta di ideali democratici e una prassi di avversione, o quanto meno di diffidenza a questa, là dove essi dovrebbero essere tutelati e difesi contro i velenosi frutti della educazione alla violenza. Perché troppa è la distanza fra la Costituzione nata dalla Resistenza e la mentalità e la pratica dei detentori di strumenti repressivi spesso inadeguati o spesso addirittura contrari al loro scopo costituzionale.

In questa sproporzione, troppo a lungo, troppo a lungo, si è persistito, sin nel recente passato, nel costruire quegli strumenti, che dovrebbero funzionare a difesa dei diritti costituzionali dei cittadini e della vita democratica, in maniera decisamente contraria, sostenendo, e a volte incoraggiando e premiando arbitri e sopraffazioni, purché compiuti a danno dei democratici. Né ci si può accontentare delle piú recenti buone intenzioni certo interessanti, promettenti, ispirate da coscienza antifascista e democratica, se ad esse non seguono atti concreti e coerenti, di cui l’attuale governo democratico ha non solo tutte le possibilità, ma anche il dovere.

In questo contesto piú generale la morte tragica di Paolo Rossi deriva da una causa piú vicina e legata all’Università di Roma.

So di pronunciare un giudizio gravissimo e durissimo, e come vecchio professore universitario avrei preferito non dover essere stato costretto dai fatti a pronunciarlo come esso è e deve essere, cosí opposto recisamente agli avalli assurdi da parte di chi, per la sua stessa autorità specifica, avrebbe potuto e dovuto almeno attendere di conoscere l’ordine del giorno votato dal Consiglio della Facoltà di lettere, il verbale della relativa seduta, le numerose dichiarazioni e testimonianze di docenti, studenti, parlamentari dei partiti di opposizione e di governo.

Quell’ordine del giorno e quelle dichiarazioni denunciano fra le responsabilità del tragico avvenimento, un modo di governo di questa Università e un uomo di cui non intendo qui fare il nome, perché esso macchierebbe, con la sua vicinanza, quello del giovane morto per l’aggressione fascista e per le possibilità ad essa concesse da quel detentore del potere universitario romano. Di quell’uomo non si sa se piú condannare l’incoscienza e l’imprevidenza o la cosciente faziosità, l’assenza o la presenza negativa in queste tragiche giornate, quando egli, oltretutto, non ha neppure considerato doveroso di venir di persona sul luogo della tragica vicenda, non ha ritenuto doveroso e umano di prendere diretto contatto con i genitori di Paolo, di recarsi dove un suo studente agonizzava e moriva a causa dell’aggressione fascista e viceversa si è preoccupato, con gesto inaudito nella storia dell’Università italiana, di chiamar subito la polizia per invitarla a sgomberare con la forza (come purtroppo la polizia ha fatto e poteva non fare) la Facoltà di lettere occupata pacificamente da studenti e docenti. E poi non si è vergognato di rilasciare ad una stampa compiacente ed interessata dichiarazioni patentemente false e insultanti per la memoria della vittima.

Quell’uomo, dico, è certamente da un punto di vista morale e non solo morale responsabile della morte di Paolo Rossi. Egli ne ha preparato la morte con infiniti atti di assenza e di presenza negativa, con l’incoraggiamento dato ai gruppi violenti e anticostituzionali, lasciandoli liberi di provocare e aggredire gli studenti democratici e inermi, di insultare docenti ed uomini del piú alto valore morale ed intellettuale, tollerando e difendendo la presenza di scritte anticostituzionali in locali da lui controllati, rifiutando di prendere nella dovuta considerazione denunce precise degli organismi studenteschi democratici, proteste di illustri docenti, lasciate spesso villanamente senza risposta.

Quale meraviglia allora se in questo clima da lui creato si poteva giungere alla tragica morte di uno studente democratico?

D’altra parte, quale meraviglia, se neppure una tragedia simile è bastata a far comprendere a quell’uomo i suoi doveri e – una volta che ancora questi venivano da lui ignorati – a fargli comprendere l’elementare necessità di abbandonare un posto cosí indegnamente occupato.

Dolore, sdegno, protesta, si fondono e convergono di nuovo nella memoria bruciante e nell’omaggio che rendiamo alla giovane vittima che abbiamo accompagnato verso la tomba. Vittima inerme e pure non inconscia delle ragioni e degli ideali che l’hanno condotta a morte, Paolo credeva e voleva che il mondo fosse liberato da ogni oppressione, fosse piú aperto, piú puro, piú degno degli uomini veri. E perciò prendeva posizioni ed impegni con se stesso e con gli altri. E, poiché era studente, riteneva suo dovere lottare per un rinnovamento profondo dell’università. E poiché era studente a Roma, riteneva suo dovere anzitutto lottare contro la vergogna della violenza fascista in questa Università. Per questo (e non per un’impossibile consolazione ai suoi genitori, a cui ci stringiamo affettuosi e fraterni, pregandoli solo di sentire il grande amore che sale verso di loro da tutti noi, la riconoscenza nostra per avere dato vita ed esempio ad un giovane di cosí alte qualità) noi intendiamo salutare Paolo Rossi, non solo con un rimpianto profondo, ma con un impegno virile e civile. Egli stesso, per la sua vita e per la sua morte, non ci chiede tanto onoranze e rimpianto (nessuno di noi lo dimenticherà mai, lo avremo presente nelle ispirazioni piú alte della nostra vita) quanto ci chiede – anzi comanda – con la voce assoluta dei morti (i morti non si possono tradire, non si possono smentire, non si possono abbandonare alla morte e alla solitudine del sepolcro), ci comanda un impegno coerente al significato della sua vita e della sua morte. Ci comanda di essere fatto vivere da noi nella nostra azione costante e indomabile per i suoi e i nostri ideali.

Un’azione concreta, coraggiosa, intesa a far sí che Paolo sia l’ultima vittima di una situazione assurda e vergognosa, a far sí che, intanto e subito, questa Università sia resa pulita e decente, a far sí che tutta l’università italiana abbia una vita interamente democratica, sicura, degna, e che ciò trovi posto in una energica trasformazione democratica di ogni aspetto della vita del nostro paese; poiché la lotta per l’università non è che una parte della nostra lotta per il rinnovamento del nostro paese. Questo impegno viene qui preso da quanti qui siamo riuniti. Ma soprattutto, pensando a Paolo io mi rivolgo ai giovani, agli studenti. Essi sono il nostro futuro (quel futuro che Paolo portava in sé e che gli è stato crudelmente negato), essi sono la nostra virile speranza (quella speranza che è stata atrocemente recisa nella vita di Paolo), essi sono coloro che porteranno piú avanti nel tempo la prosecuzione di questa nostra lotta: una lotta democratica, coerente ai metodi e ai fini della democrazia, decisissima nella scelta di ciò che rende degna la vita degli uomini e nel rifiuto di tutto ciò che la deturpa, la contamina e la rende peggiore della morte.


[1] Da «Mondo Operaio», n. 4, 1966.

Fu il vero inizio del movimento studentesco a Roma, due anni prima del ’68. L’istruttoria per quell’assassinio si concluse solo il 30 luglio 1968 con una sentenza di “omicidio preterintenzionale contro ignoti”: si riconosceva che era stato commesso un “delitto” anche se restavano sconosciuti gli autori, benché l’intero pestaggio fosse stato fotografato, e fossero riconoscibilissimi i responsabili.

Immagine in bianco e nero di un momento del pestaggio che portò all'uccisione di Paolo Rossi. Vi è una folla e in primo piano sono inquadrate tre persone di profilo. Tra queste vi è un poliziotto indifferente verso ciò che sta accadendo.
Un momento del pestaggio che portò all’uccisione di Paolo Rossi (1). Si noti l’indifferenza del poliziotto in primo piano.
Immagine in bianco e nero di un ulteriore momento del pestaggio che portò all'uccisione di Paolo Rossi. Sono chiaramente visibili e riconoscibili i volti di molte persone della folla che stanno partecipando attivamente al delitto.
Un momento del pestaggio che portò all’uccisione di Paolo Rossi (2). Riconoscibilissimi i picchiatori.

Almirante con la pennetta sul cappello all’assalto del Movimento studentesco

Il 16 marzo 1968, due settimane dopo la “battaglia di Valle Giulia”, nelle prime ore del mattino, un nutrito gruppo di militanti del MSI, guidati dall’allora deputato Giorgio Almirante, tentano un assalto alla Facoltà di Lettere della Sapienza, con l’intenzione di bloccare l’occupazione portata avanti dagli studenti.

Immagine in bianco e nero che ritrae i mazzieri neo-fascisti sulla scalinata della Facoltà di Giurisprudenza durante l'assalto del1968. In primo piano è riconoscibile la figura di Giorgio Almirante.
Giorgio Almirante alla testa dei mazzieri neo-fascisti sulla scalinata della Facoltà di Giurisprudenza durante l’assalto del 16 marzo 1968.

All’assalto seguirono violenti scontri. Particolarmente intensi furono quelli sotto la Facoltà di Giurisprudenza, all’interno della quale si erano asserragliati i missini. Gli studenti che cercavano di entrare per cacciare i fascisti forzando gli ingressi ostruiti da mobili e suppellettili vari, vennero fatti bersaglio di un fitto lancio di banchi, cattedre e sedie.

Proprio a causa del lancio di un pesante banco venne ferito uno degli esponenti di spicco del movimento, Oreste Scalzone, che riportò una frattura alla colonna vertebrale.

Anche in anni più recenti numerosi compagni hanno perso la vita a Roma per mano dei fascisti o della polizia. Il 27  febbraio 1969 si svolgono grandi manifestazioni contro la presenza di Nixon a Roma. Mentre la PS interviene con grande violenza contro il corteo, i fascisti tentano un assalto contro la Facoltà di Magistero occupata, incendiando fra l’altro il portone dell’edificio. Nel tentativo di sfuggire, lo studente di Lingue Domenico Congedo precipita da un cornicione e muore; era nato a Monteroni (Le) e aveva 23 anni.

Ricordiamo i loro nomi, in un elenco probabilmente incompleto[3].

Per saperne di più


  • S. Ferrari, Ombre nere sulla Repubblica. Il neofascismo italiano. Tappe, percorsi, identità, Partito della Rifondazione Comunista, Federazione di Brescia, s.d.
  • C. Armati, Cuori rossi. La storia , le lotte e i sogni di chi ha pagato con la vita il prezzo delle proprie idee. Dagli eccidi di contadini e operai nel dopoguerra all’esecuzione di Valerio Verbano e  Peppino Impastato, dai caduti del ’77’ alla morte di carlo Giuliani, Roma, Newton Compton, 2008.
  • S. Ferrari, 12 aprile 1973: il giovedì nero di Milano. Quando i neofascisti uccisero l’agente Antonio Marino, Roma, Red Star Press, 2016.

[1] Dopo l’assassinio di Paolo Rossi, furono raccolte le denuncie – tutte senza esito – che erano state presentate negli anni: da U. Cattani (1960), da Franco Pacini (1960), da Raffaele Romanelli (1963), da Alberto Calzabini (1964), da Andrea Saraceno (1964), da Gaetano Aldovino (1964), da Claudio Pedrini (1965), dal prof. Lucio Lombardo Radice (due lettere al rettore senza risposta), dal prof. Aurelio Roncaglia (per il ferimento del figlio), da ventisette professori della facoltà di Lettere.

[2] L’organizzazione studentesca di comunisti e socialisti.

[3] Chiedendo fin d’ora scusa delle eventuali omissioni, invitiamo i Lettori e le Lettrici a segnalarcele.