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All’indomani della caduta del fascismo, la situazione del Paese era molto grave: la produzione industriale era pari a un terzo di quella anteguerra, in agricoltura la produzione aveva subito un calo del 60%. Critica era la condizione degli approvvigionamenti alimentari, l’inflazione era in forte crescita, vi era una mancanza di alloggi ed elevata era la disoccupazione. Le tensioni sociali nel paese erano molto forti: si diffondevano nel centro-sud le occupazioni delle terre, in Sicilia si era sviluppato un movimento indipendentista, al nord erano forti le rivendicazioni operaie.
Alle condizioni economiche sociali difficili si univano necessità istituzionali impellenti: occorreva risolvere la questione rimandata dell’assetto istituzionale, scegliendo fra monarchia e repubblica, occorreva – dopo il crollo del fascismo – non solo epurare il paese dai responsabili di quella tragedia, ma darsi anche un nuovo assetto istituzionale democratico.
Dopo le dimissioni di Bonomi nel giugno del ’45, l’incarico di Presidente del Consiglio fu affidato a Ferruccio Parri, storico leader del Partito d’Azione e una delle figure più autorevoli della Resistenza. Egli cercò di imprimere un orientamento riformatore coraggioso all’azione di governo, con l’epurazione dei maggiori responsabili del fascismo, con una forte tassazione delle grandi imprese, ma ciò alimentò l’opposizione delle forze moderate e l’esito fu la nascita del governo De Gasperi, esponente della DC, che pur guidando una coalizione di cui facevano parte i partiti del CLN, impresse una svolta moderata.
Gli effetti non furono indolori: le riforme economiche furono messe da parte, i prefetti nominati dal CLN furono sostituiti da funzionari statali, il processo di epurazione dei fascisti fu molto contenuto, fino alla scelta dell’amnistia del giugno ’46, varata da Togliatti, in qualità di ministro della Giustizia.
È in questo contesto che il 2 giugno del ’46 furono indette le elezioni per l’Assemblea Costituente, l’organo che avrebbe dovuto elaborare una nuova costituzione, che sostituisse il vecchio Statuto Albertino che risaliva a un secolo prima. Nello stesso giorno, si sarebbe tenuto il referendum sulla scelta fra monarchia e repubblica. Si trattò di due passaggi fondamentali.
Nel referendum prevalse la scelta repubblicana.
Per la prima volta in Italia votarono anche le donne (i votanti furono circa 13 milioni di donne e 12 milioni di uomini, pari all’89,08% degli aventi diritto al voto).
I voti per la repubblica furono 12.717.923, contro i 10.719.284 a favore della monarchia, con uno scarto non piccolo (circa 2 milioni di voti), anche se con risultati territoriali molto diversi, per la prevalenza nel centro-nord della scelta della repubblica e nel sud della monarchia. Si chiudeva cosi la fase monarchica, il nuovo re Umberto II, che era succeduto a Vittorio Emanuele III solo un mese prima, lasciò il Paese.
I risultati per l’elezione dell’Assemblea Costituente videro il successo della DC con circa il 35% dei consensi, seguita dai partiti di sinistra, PSIUP (20,6%) e PCI (18,9%). Debolissimo il consenso delle destre liberali o monarchiche. Il Partito d’Azione subì una forte flessione riducendosi all’1,5% dei voti.
Tutto ciò avvenne in un momento in cui il governo conservava una connotazione unitaria, ma per comprendere l’eccezionalità del percorso di elaborazione della nuova carta costituzionale, si deve avere chiaro che mentre procedevano i lavori della Costituente, dal 24 giugno ’46 al 22 dicembre ’47, lo scenario politico fu caratterizzato da notevoli turbolenze e si verificò un mutamento radicale nel rapporto fra i partiti.
Non solo nella coalizione unitaria emersero sempre più forti le divergenze fra la DC e i partiti di sinistra, sia sulla collocazione in politica estera, con la DC schierata nel campo occidentale e i partiti di sinistra vicini all’URSS, sia sull’atteggiamento da tenere nei confronti delle rivendicazioni sociali (dal salario, all’occupazione, alla proprietà delle terre), con la DC che tendeva a contrastare tali rivendicazioni e i partiti di sinistra che le appoggiavano.
Intanto lo PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) perse nel congresso, tenutosi nel gennaio del ’47, la sua componente moderata e filo occidentale, che darà vita – guidata da Saragat – al Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, poi trasformatisi in Partito Social-Democratico Italiano (la “scissione di palazzo Barberini”). A seguito di questa scissione e della crisi ormai evidente dell’alleanza di governo, si giunse nel maggio ’47 alla nomina di un nuovo governo a guida De Gasperi, però senza più le forze di sinistra.
È in questa fase, caratterizzata da una tensione crescente nei rapporti politici che rispecchiava divisioni profonde negli orientamenti, che si tennero i lavori dell’Assemblea Costituente, la quale, nonostante tutto, mantenne quel carattere unitario ispirato dalla comune esperienza maturata durante la Resistenza.
Il fatto che la Costituzione repubblicana rechi la firma del comunista Umberto Terracini (il compagno di Gramsci, fin dai tempi dell’”Ordine Nuvo”, condannato dal Tribunale Speciale fascista a 22 anni e 9 mesi di carcere) esprime anche simbolicamente la partecipazione dei comunisti e delle comuniste alla fondazione della democrazia italiana.
Tale unità si tradusse, alla fine, in un compromesso che disegnò un profilo istituzionale avanzato, anche in virtù di una capacità di mediazione considerevole, specie in alcuni passaggi particolari.
È il caso della discussione che sorse sull’art.7 che regolava i rapporti fra stato e chiesa. Il disaccordo fra DC e partiti moderati, da un lato, e partiti della sinistra, dall’altro, era aspro, anche per il tentativo delle componenti moderate di assorbire nella Costituzione i contenuti che nel ’29 erano stati recepiti nel Concordato sottoscritto da Mussolini e dal Vaticano. A risolvere la questione giunse ancora una volta Togliatti che diede il via libera all’articolo, in nome del rispetto del sentimento religioso della popolazione italiana. Al fondo vi era da parte del PCI la volontà di giungere comunque a una Costituzione condivisa, condizione indispensabile per garantire la democrazia nel Paese.
La Costituzione, alla fine, ricalcava la parte migliore del modello liberal-democratico nella sua struttura istituzionale, al pari delle altre Costituzioni varate nel dopoguerra in Europa.
Per esempio, la garanzia democratica si fondava sull’assunzione di un modello parlamentare1 (imperniato su una Camera dei Deputati e un Senato della Repubblica, con funzioni simili) nel quale il Parlamento, massimo organo istituzionale, esprimeva l’esecutivo (il Governo), mentre la Magistratura, a garanzia d’imparzialità, manteneva una collocazione autonoma. È il disegno della divisione (tripartizione) dei poteri contenuto anche nelle altre costituzioni europee: il potere legislativo è attribuito al Parlamento, al Governo spetta il potere esecutivo, mentre la Magistratura, indipendente sia dall’esecutivo che dal potere legislativo, esercita il potere giudiziario.
Il perno del funzionamento democratico veniva individuato nel ruolo attribuito ai partiti, canalizzatori delle diverse istanze politico-sociali, anche se la Costituzione italiana prevedeva la presenza di altri istituti partecipativi specifici, come per esempio il referendum popolare.
Tuttavia, l’aspetto più significativo, il contributo più tipicamente resistenziale che andava bel al di là del modello liberal-democratico, stava in primo luogo nei principi generali della Costituzione.
Il fatto che la Repubblica sia fondata sul lavoro (art. 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”) costituiva una apertura a modelli sociali che fanno dei lavoratori e delle lavoratrici i protagonisti della direzione del paese; o l’art. 3 secondo comma (“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”), in cui il superamento delle diseguaglianze veniva declinato in modo radicale, attribuendo alla Repubblica il compito di eliminare le cause di tali diseguaglianze; o ancora gli art.41 e 43, in cui la proprietà privata era condizionata al rispetto delle esigenze della collettività – e quindi non costituiva più un diritto assoluto – e potevano essere praticate le espropriazioni necessarie a garantire l’interesse pubblico.
Si tratta solo di alcuni spunti, perché negli indirizzi contenuti nei primi articoli della Costituzione, quelli sui quali si fonda l’insieme della nuova costruzione repubblicana, si colgono elementi che travalicano l’orizzonte liberal-democratico verso un indirizzo molto più aperto in tema di diritti e di organizzazione sociale.
In questo senso, la Costituzione italiana, è a tutti gli effetti, una costituzione che trae la sua ispirazione dalla Resistenza. In essa, la scelta antifascista è esplicita, come si può cogliere, analizzando articolo per articolo, l’alternatività rispetto ai fondamenti del fascismo. Non si tratta solo dell’esplicito divieto di ricostituzione del partito fascista (sotto qualsiasi forma), ma anche dell’assunzione di un insieme di valori esplicitamente antifascisti.
Questa connessione fra Costituzione e Resistenza è bene espressa nella parte finale del discorso che Calamandrei tenne agli studenti milanesi nel ’55:
“Quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questa Costituzione! Dietro ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, cha hanno dato la vita perché libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, è un testamento, è un testamento di centomila morti.
Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione.”
Due ultime osservazioni sono necessarie. La prima riguarda la relazione fra sistema elettorale e scelta costituzionale. I padri e le madri costituenti tennero separati i due ambiti e la legge elettorale non fu specificata in seno alla Costituzione, ma non vi è dubbio che tutto l’impianto proposto, sia per la scelta esplicitamente parlamentare, sia per la correlazione fra costruzione del consenso e rispetto dei principali valori costituzionali, rimandava a una legge elettorale proporzionale2, come effettivamente si fece in quella fase. La seconda osservazione riguarda l’anomalia rappresentata da quelle parti della Costituzione che furono applicate solo molto tempo dopo (come nel caso dell’istituzione delle Regioni, della nomina del Consiglio Superiore della Magistratura o della Corte Costituzionale) o non furono applicate affatto e che ancora oggi non sono state compiutamente rispettate e applicate.
Per questo la lotta per la difesa della Costituzione si lega alla necessaria lotta per la sua integrale attuazione.
1 Vale la pena ricordare che la Costituzione italiana è parlamentare, dunque non presidenziale, affida cioè il potere politico al Parlamento e non a un Presidente, come è invece negli Stati Uniti o (in parte) nella Francia dopo De Gaulle. Questa fu la scelta lungimirante dei padri e delle madri Costituenti che, forti dell’esperienza nefasta del fascismo, vollero evitare i rischi di una dittatura (o demo-cratura) sempre presenti nel presidenzialismo, il sistema di “un uomo solo al comando”. Non per caso il presidenzialismo è stato da sempre nei programmi del MSI (nelle sue varie articolazioni e denominazioni) e figura nel “Piano” della P2 di Licio Gelli.
2 Per “Legge elettorale proporzionale” si intende un sistema elettorale per cui il numero dei seggi assegnati ai Partiti corrisponde in proporzione al numero dei voti da loro riportati alle elezioni, dunque senza “premi di maggioranza”, sbarramenti, o altri artifici miranti a non far corrispondere la composizione del Parlamento al voto degli elettori e delle elettrìci.
Per saperne di più
- E. Traverso, Che fine hanno fatto gli intellettuali?, Verona, Ombre Corte, 2014
- E. Traverso, Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia, Milano, Feltrinelli, 2021