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La Resistenza rappresentò l’evento di rottura fondamentale con il regime fascista e legittimò la nascita successiva dell’Italia repubblicana, ispirando nei contenuti la nuova carta costituzionale.
Si trattò di un fenomeno popolare, una mobilitazione armata di uomini e di donne (il cui contributo decisivo non va sottovalutato) che investi una parte minoritaria della popolazione, ma non irrilevante, soprattutto nel centro-nord dell’Italia, nel periodo che va dall’armistizio con gli alleati dell’8 settembre ’43, alla proclamazione della Liberazione del Paese il 25 aprile del 1945. Dunque, un periodo relativamente breve, durato all’incirca un anno e mezzo.
La Resistenza si sviluppò a seguito di alcuni fenomeni fondamentali. Il primo è il venir meno del consenso al regime fascista. A questo contribuirono il peggioramento delle condizioni di vita prodotto dalla guerra, le sconfitte subìte dagli eserciti dell’Asse nell’Africa settentrionale e in URSS dopo Stalingrado e l’invasione anglo-americana della Sicilia del luglio ’43.
In questo contesto, la situazione precipitò con la caduta dello stesso regime fascista, con il voto del Gran Consiglio del Fascismo il 24-25 luglio ’43 che rimise il potere nelle mani del re.
Con le successive dimissioni di Mussolini, il suo arresto e la nomina del generale Badoglio a presidente del Consiglio, si chiuse la vicenda del fascismo al potere, ma non quella del fascismo. Il passaggio decisivo si ebbe circa un mese dopo, con la proclamazione dell’armistizio con gli alleati, reso pubblico l’8 settembre del 1943.
L’entusiasmo popolare che accompagnò la caduta del fascismo fu motivato in larga misura dal desiderio di chiudere definitivamente il capitolo della guerra e l’assenza di una reazione fascista immediata fu l’indice della crisi che ormai serpeggiava nel partito al potere, umiliato dalle sconfitte subite nei campi di battaglia.
Non a caso, la riorganizzazione delle forze fasciste dopo l’8 settembre, avvenne per l’intervento diretto dei tedeschi che, in assenza di orientamenti da parte del governo Badoglio alle truppe italiane, occuparono gran parte del paese e disarmarono ciò che restava dell’esercito italiano. È in questa fase che circa un milione di soldati italiani furono catturati e internati nei campi di concentramento.
La Resistenza iniziò dopo l’8 settembre ’43. Essa ebbe come suo battesimo del fuoco lo scontro armato fra alcuni reparti dell’esercito italiano e di civili che resistettero alle truppe tedesche a porta San Paolo e in altri quartieri per due giorni, dopo che il re e il governo Badoglio (che a Roma avrebbero avuto una superiorità militare sui tedeschi) avevano trattato coi tedeschi la loro fuga per trasferirsi a Brindisi sotto controllo degli anglo-americani.
Fenomeni di Resistenza sparsi e spontanei si produssero anche in altri luoghi, in cui pezzi dell’esercito italiano in disfatta e civili in armi combatterono contro i tedeschi.
L’episodio forse più celebre (in questa prima fase) fu la resistenza ai tedeschi dei reparti italiani a Cefalonia (isola dell’arcipelago greco) che si concluse con il loro sterminio, ma non va dimenticata la battaglia di Gorizia cui parteciparono migliaia di partigiani italiani e iugoslavi e le celebri quattro giornate di Napoli (tra il 27 e il 30 settembre 1943) con la liberazione della città, anche se gli episodi furono molteplici, in tutta la penisola.
I primi raggruppamenti partigiani assunsero inizialmente il carattere di un fenomeno spontaneo, non organizzato, sorto dalla congiunzione di pezzi dell’esercito italiano sbandato e di civili che, anche per fuggire all’arruolamento forzato imposto dai repubblichini, si nascosero in montagna cominciando ad armarsi.
Secondo alcuni storici, la dimensione di questa prima esperienza di ribellione armata ai fascisti e ai nazisti, sul finire del ’43, ammontava ad alcune migliaia di uomini (forse meno di 10.000 combattenti). La trasformazione di questi raggruppamenti spontanei in organizzazioni con una più marcata caratterizzazione politica avvenne in alcuni mesi, man mano che i partiti democratici riemersero dalla condizione di clandestinità in cui versavano. Ciò avvenne nel periodo che separa la caduta del fascismo e le dimissioni di Mussolini, e l’armistizio dell’8 settembre con gli alleati. È in questa fase che ricomparvero ed emersero partiti quali: il PCI, il PSIUP, il Partito d’Azione, la Democrazia Cristiana, il PLI, che, non senza contrasti, diedero vita a una struttura di coordinamento, il CLN, (il Comitato di Liberazione Nazionale) che lanciò la parola d’ordine della lotta e della Resistenza.
Video: Filmati di partigiani di azione
I raggruppamenti partigiani progressivamente si organizzarono sulla base delle affiliazioni politiche a queste forze, costituendosi in brigate. Nelle città piccoli raggruppamenti (GAP) agirono, soprattutto, attraverso azioni isolate contro il nemico.
Da subito s’imposero per numero e peso le brigate Garibaldi, costituite in larga parte dai comunisti. Il che non deve stupire se si considera che il Partito comunista era rimasto nel corso del ventennio l’unica struttura che aveva continuato ad agire in clandestinità nel Paese, mantenendo contatti in particolare con operai e ambienti proletari. Oltre a queste vi furono le formazioni di Giustizia e Liberta, in parte legate al Partito d’Azione, e le brigate Matteotti, legate ai socialisti. Ma fra questi gruppi organizzati non mancarono neppure formazioni di orientamento cattolico e monarchico.
Nella prima fase della Resistenza, il CLN e il governo Badoglio procedettero separatamente. Pesavano le critiche di gran parte dei partiti democratici alla monarchia, responsabile della nascita e dell’affermazione del fascismo, della scelta dell’entrata in guerra, della repressione politica del dissenso. Nell’ottobre del ’43 fu riconosciuto dagli alleati all’Italia il ruolo di “paese cobelligerante” contro i fascisti e i tedeschi, con la costruzione al sud di un Corpo Italiano di Liberazione che combatté con gli anglo-americani in rappresentanza del governo Badoglio, ma è soprattutto nel centro-nord che il fenomeno resistenziale vero e proprio si sviluppò.
Un passaggio politico decisivo si ebbe nel marzo del ’44 con il ritorno in Italia del capo dei comunisti, Togliatti, sotto il cui impulso si attuò quella che sarebbe stata definita “la svolta di Salerno”. La proposta che venne avanzata da Togliatti, non senza resistenze da parte degli altri partiti, fu quella di dar vita a un governo di unità nazionale con le forze badogliane che si proponesse come primo obiettivo la liberazione del paese, lasciando la decisione sulla forma di governo da dare al paese (repubblica o monarchia) alla decisione del popolo, nella fase successiva.
Il 24 aprile del ’44 si formò cosi il primo governo di unita nazionale, presieduto da Badoglio, con la presenza dei partiti del CLN. Nel successivo giugno ’44, dopo la liberazione di Roma da parte degli alleati, Badoglio sarà sostituito come capo del governo da Ivanoe Bonomi, espressione diretta del CLN.
Nel frattempo, le formazioni partigiane si erano già date al nord una struttura di comando unificato, il CLNAI (il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia). Era un passaggio obbligato per superare le divisioni fra la parte politica (i partiti collocati al sud) e la parte militare (operante nel centro-nord).
È in questa fase, fra la primavera e l’estate del ’44, che le brigate partigiane svilupparono il massimo della loro azione in una situazione sociale in forte movimento. Decisivi gli scioperi del marzo ’44 che coinvolsero molte aziende dell’Italia centro-settentrionale, promossi molto spesso dai quadri comunisti, ma talvolta prodottisi anche spontaneamente.
Complice di questo rinato attivismo fu certamente la difficoltà dei tedeschi e dei loro alleati che per resistere all’offensiva anglo-americana, si erano attestati ormai nel centro-nord del paese, lungo la “linea Gustav”. Nel contempo, crebbe il supporto alle formazioni partigiane (con armi, viveri, ecc.) da parte delle popolazioni e degli alleati. Infine, si ebbe – nel periodo – una consistente crescita dell’adesione alle brigate partigiane, di renitenti alla leva e in parte di fasce proletarie, operaie (soprattutto) e contadine.
L’attività partigiana si sviluppò su più fronti. Fu protagonista non solo d’incursioni e attacchi a formazioni repubblichine e tedesche, ma svolse anche un ruolo essenziale di intelligence a favore degli alleati. In questa fase di espansione dell’azione partigiana (alla fine del ’44 si raggiunsero circa i 70-80.000 combattenti, circa metà dei quali raccolti nelle brigate Garibaldi) sono degni di nota la liberazione e l’autogoverno di alcune parti del territorio nazionale: le cosiddette “repubbliche partigiane”. Se ne contarono diverse, come: Montefiorino (la prima in ordine di tempo), la Val d’Ossola, le Langhe, l’Oltre Po pavese, la Carnia, ecc. Ma si tratta solo di alcune rispetto alle tante che si crearono.
Non si possono dimenticare gli eccidi che i partigiani subirono per effetto dei frequenti rastrellamenti, né le ritorsioni sulle popolazioni giudicate sostenitrici dei partigiani, come nel caso dell’eccidio di Marzabotto, dove, nel settembre ’44, furono uccisi 770 abitanti.
Nel frattempo nelle città occupate dai tedeschi si intensificarono le azioni partigiane1.
Alla repressione delle azioni partigiane, e anche degli scioperi studenteschi, partecipavano attivamente i fascisti, come nel caso dell’uccisione dello studente diciottenne Massimo Gizzio ucciso il 1 febbraio 1944 davanti al Liceo “Dante” di Roma nel corso di uno sciopero studentesco.
MATERIALI L’UCCISIONE DI GIZZIO E IL PROCESSO-FARSA
Massimo “Mimmo” Gizzio era uno dei dirigenti del Comitato studentesco di agitazione, con Carlo Lizzani e Vincenzo Lapiccirella. La mattina dello sciopero, chiamati – a quanto sembra – dal preside della scuola, una macchina di fascisti armati affrontò sparando gli studenti e colpì alla schiena Gizzio che cercava di fuggire.
Dopo la liberazione, il Tribunale di Napoli giudicò per l’omicidio i fascisti Massimo Uffreduzzi, Sergio Bertolani, Carlo Alberto Guida e Giorgio De Michele. Furono tutti assolti, incluso l’esecutore materiale Massimo Uffreduzzi – che si vantò financo dell’ “atto eroico” – poiché, come scrisse testualmente la sentenza, “anche lui è uno studente, travolto dal clima arroventato della guerra”.
Così si legge nel libro di Felice Cipriani che riporta anche testimonianze rese al processo:
“Mimmo era molto stanco in quei giorni, anche perché aveva vissuto la tremenda esperienza di Velletri (era stato sotto i bombardamenti mentre si recava a trovare i nonni che stavano a Cecchina). Nonostante ciò si diresse a piedi assieme ad altri compagni e si ritrovò di fronte al liceo Dante Alighieri assieme a Silvestri Luigi studente medicina, Carbone Giuseppe iscritto filosofia, Malatesta Giovanni architettura, D’Alessandro Epicarno studente III° corso liceale, Lupi Ivo impiegato privato. Mimmo voleva verificare di persona com’era la situazione della manifestazione degli studenti. Egli avrebbe dovuto usare molta prudenza per il fatto di essere stato arrestato e seviziato, ma non volle sottrarsi all’invito di recarsi all’appuntamento.
La Milizia fascista era stata allertata di questo sciopero dal preside Landogna, fascista e console della Milizia, che si mise all’ingresso obbligando gli studenti a entrare, minacciandoli. Disse loro che per quello che stavano facendo potevano essere fucilati. Guida Carlo di “Onore e Combattimento” dirà al processo di essere stato avvertito, la sera prima, telefonicamente dal dott. Videtta, comandante del Gruppo Guardie Nazionali fasciste, che era distaccato presso la delegazione della segreteria del partito alla quale apparteneva lo stesso Guida. L’ordine era di portarsi presso il liceo “Dante Alighieri” il mattino dopo, per sorvegliare l’andamento di una dimostrazione, che gli studenti di quell’istituto volevano fare contro i tedeschi.
L’iniziativa aveva avuto successo: quasi tutti gli studenti vi avevano preso parte, molti professori non avevano fatto alcuna resistenza, nonostante le disposizioni contrarie del preside Landogna. Alla scuola erano arrivati i fascisti di uno dei gruppi più accaniti, “Onore e Combattimento”. Erano stati con tutta probabilità avvertiti da Guida. Quando il portone fu aperto e gli studenti uscirono furono accolti con grida e qualche sparo. Ci furono dei tafferugli, si ebbero dei minuti di pausa apparente, poi gli spari ricominciarono.
Questa la testimonianza di Antonio Landolfi, che stava dentro la scuola e ricorda il piano: “Appena suonava la campanella, noi dovevamo aprire il portone e fare lo sciopero. Stavamo dentro la scuola e uscimmo, vedendo i fascisti in divisa e armati, abbiamo cominciato a scappare e io vidi, con la coda dell’occhio, Massimo Gizzio che correva in direzione opposta, verso via Valadier. Sentì poi dei colpi, ma già stavo lontano e non vidi l’esito dei colpi sparati. Fuori dalla scuola, a incontrare gli scioperanti erano giunti altri giovani, anche universitari, attivisti del movimento come Carlo Lizzani. “Quel giorno, ha scritto Franco Lefevre, ci imbattemmo in un preside, certo Landogna, che dopo averci spintonato ci urlò: «Ora avete la lezione che meritate, solo pochi minuti e vedrete!». Arrivarono infatti, gli addetti alla ‘lezione’. Scesero da una macchina a pochi metri da noi e ci piombarono addosso con le pistole in pugno. Non erano più di quattro o cinque, ma capirono subito che avrebbero avuto la meglio, visto che nessuno di noi aveva mostrato un’arma. Intanto Massimo, arriva vicino l’Istituto e vede i compagni fermati con le pistole. Si ferma e torna indietro, ma prima di girare l’angolo viene raggiunto da quattro colpi”.
Lia (Pasqualino Noto): “Io ero là, quando hanno sparato a Massimo Gizzio, a distribuire ‘L’Unità’ clandestina”.
Testimonianza al processo di Lupi Ivo: “(…) mi trovai per caso sul luogo della sparatoria, perché ivi mi ero recato per accompagnare degli amici. Sentii il preside rimproverare gli alunni a ordinar loro di entrare a scuola. Dopo le rimostranze mie e di altri, vidi venir verso di me un gruppo di 6 persone tra cui notai uno con un trence (Bertolani), uno con un cappotto marrone, uno con una barba bionda e uno con una barba nera incipiente che puntò contro di me la sua pistola Glisenti e si trattava di De Michele. Questi concitatamente mi ordinò di non muovermi, io risposi che non mi sarei mosso ma che temevo dei suoi nervi. Inoltre vi era anche un altro individuo che avevo conosciuto in casa del prof. Gesmundo (catturato nel pomeriggio dello stesso giorno e trucidato il 24 marzo alle Fosse Ardeatine); egli era alto, biondo, con gli occhi umidi (si trattava di Guida). Intanto il preside si trovava insieme con una persona che mi disse poi essere il professore di ginnastica e che ora non sarei in grado di riconoscere. Ricordo che a indicare il gruppo di giovani di cui faceva parte Gizzio, fu lo stesso preside. A un tratto Gizzio fuggì, spararono in molti e dapprima pensai si trattasse di colpi a salve, poi lo vidi barcollare. Uffreduzzi era un po’ distante e non sono sicuro se abbia sparato. Poi fummo portati nella scuola dove il preside ci minacciò. (…) Poi fui portato al commissariato dove constatai che De Michele aveva una pistola Glisenti; Guida una pistola nichelata, Bertolani una Beretta; riassumendo hanno sparato De Michele, Betolani, Guida e forse un 4. Tutte le circostanze le annotai sulle pagine di un mio libro”.
Testimonianza di Franco Raparelli rilasciata al processo: “Io sono l’ignoto soccorritore del Gizzio al momento del ferimento. Mi ero adoperato per incitare allo sciopero e avevo notato che vicino al Landogna che esortava ad entrare in scuola, c’era il Lucchetti (insegnante di Educazione Fisica). Dal punto in cui questi si trovava non credo che abbia potuto sparare anche se lui è rimasto sempre in quel punto. Mi passò vicino Gizzio che, già ferito, correva per sottrarsi all’arresto, visto che cominciava a barcollare mi avvicinai a lui e insieme entrammo al n. 1 di Via Valadier ed entrammo per caso in casa del prof. Addamiano. Poco dopo si aggravò e non avendo altri mezzi a disposizione lo trasportai su di un carro di paglia verso l’ospedale; ebbe solo il tempo di dire: ‘M’hanno ammazzato i fascisti; viva la libertà’. I quattro colpi che avevo uditi erano stati precisi e cadenzati, come tirati su un bersaglio e non mi sembrarono sparati due in terra e due in alto.”
(Da: Felice Cipriani, Massimo Gizzio e le Lotte Studentesche – Un inno alla Libertà e una Grande Storia d’Amore 1943-1944, Roma, Chillemi, 2016.)
L’atto di guerra più importante fu l’attacco che ebbe luogo in Via Rasella a Roma il 23 marzo 1944, contro una colonna di militari tedeschi che fu colpita con bombe e armi da fuoco da un gruppo di partigiani comunisti (fra loro le Medaglia d’oro Carla Capponi, Rosario Bentivegna, Carlo Salinari, Carlo Calamandrei, Mario Fiorentini). Trentatré tedeschi furono uccisi, nel più rilevante attentato urbano antitedesco in tutta l’Europa occidentale. La rappresaglia tedesca l’indomani uccise 335 prigionieri, consegnati anche dalle autorità italiane, nella cava delle Fosse Ardeatine; la cava fu poi fatta esplodere dai tedeschi per nascondere la strage. La propaganda fascista che inventò il rifiuto dei partigiani di costituirsi per evitare la strage fu smentita non solo da ripetute sentenze della Magistratura ma anche dal libro di Sandro Portelli (L’ordine è stato eseguito, Milano, Feltrinelli, 2015) che dimostrò come nessun appello del genere avvenne mai e come il primo manifesto tedesco già annunciava la strage delle Fosse Ardeatine come avvenuta.
Il 17 aprile 1944 un intero quartiere di Roma, il Quadraro, definito dai nazifascisti “nido di vespe” per la forza e il consenso popolare dell’attività partigiana, fu sottoposto a rastrellamento: oltre 2.000 persone furono arrestate e 683 deportate in Germania per essere impiegate ai lavori forzati.
Azioni come queste impedirono ai tedeschi di muoversi con disinvoltura nelle città occupate e impegnarono rilevanti forze dell’invasore, contribuendo in modo rilevante alla guerra di Liberazione.
Con l’autunno/inverno del ’44, le sorti della guerra partigiana mutarono. L’impegno anglo-americano, dopo lo sbarco in Normandia del giugno ’44, nel centro Europa ridusse lo sforzo bellico alleato in Italia sulla “linea gotica”, e cioè il fronte che si era stabilizzato dalla provincia di Massa Carrara a quella di Pesaro-Urbino. Le forze nazifasciste, meno incalzate dalle truppe anglo-americane, rafforzarono la loro pressione sulle formazioni partigiane. A questo si aggiunse il comunicato del generale Alexander nel novembre del ’44 rivolto ai partigiani (in cui s’incitava a ridurre le azioni offensive e di tornare a casa per prepararsi a un inverno difficile) che ebbe un effetto molto negativo sulle brigate partigiane. L’inverno fra il ’44 e il ’45 segnò quindi un momento particolarmente duro per il movimento partigiano che subì un’offensiva consistente dei nazifascisti a cominciare dall’occupazione di molte delle zone liberate.
Lo scenario cambiò totalmente nel ’45, con l’avanzata nel centro-Europa delle truppe alleate verso Est e, dall’altro lato, con l’avanzata rapida dell’Armata Rossa verso Ovest. La Germania era quindi stretta in una morsa fatale e la sconfitta inevitabile. Nella primavera del ’45 si rafforzò, inoltre, l’offensiva degli alleati verso il nord dell’Italia, forzando la nuova “linea Gotica”, mentre ricominciò il sostegno al movimento partigiano da parte degli anglo-americani. La tenuta dei nazifascisti al nord venne meno e il movimento partigiano riprese forza, ampliò la sua azione, si rovesciò dalla montagna alla pianura, liberò più di un centinaio di città (fra cui Genova e Massa Carrara: Napoli si era già liberata dai tedeschi con le “quattro giornate”: 27 – 30 settembre 1943).
Il CLNAI proclamò l’insurrezione generale per il 25 aprile del ’45 e le truppe tedesche cominciarono a lasciare il paese.
Nel disfacimento totale di quello che rimaneva del fascismo, si colloca la fine di Mussolini che, tentando invano di camuffarsi da tedesco per lasciare il paese, fu riconosciuto e catturato dai partigiani. Il 28 aprile del ’45, insieme con altri gerarchi, fu fucilato secondo l’ordine del CLN e il giorno dopo il suo corpo fu esposto per alcune ore in piazzale Loreto, a Milano. Era lo stesso luogo dove erano stati fucilati quindici partigiani.
È stato difficile quantificare il numero dei partigiani e delle partigiane e il tributo di sangue da loro pagato per la liberazione d’Italia, sia per l’impossibilità di distinguere fra i partigiani e le partigiane caduti in battaglia e le vittime delle rappresaglie nazifasciste (come i martiri delle Fosse Ardeatine: 335 civili e militari italiani, prigionieri politici, ebrei, trucidati a il 24 marzo 1944), e sia per la presenza fra i resistenti combattenti anche di militari dell’ex-esercito regio.
Secondo l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito i partigiani morti furono più di 54mila: di questi, 17.488 erano militari e 37.288, civili. Alla cifra vanno aggiunti i partigiani italiani morti nei Balcani, circa 9.249.
Secondo l’ANPI (ricerca condotta da Fernando Strambaci):
“i Caduti nella Resistenza italiana (in combattimento o eliminati dopo essere finiti nelle mani dei nazifascisti), siano stati complessivamente circa 44.700; altri 21.200 rimasero mutilati o invalidi. Tra partigiani e soldati italiani caddero combattendo almeno 40 mila uomini (10.260 furono i militari della sola Divisione Acqui, Caduti a Cefalonia e Corfù). Altri 40 mila IMI (Internati Militari Italiani), morirono nei Lager nazisti.
Le donne partigiane combattenti furono 35 mila, e 70 mila fecero parte dei Gruppi di difesa della Donna. 4.653 di loro furono arrestate e torturate, oltre 2.750 vennero deportate in Germania, 2.812 fucilate o impiccate. 1.070 caddero in combattimento, 19 vennero, nel dopoguerra, decorate di Medaglia d’oro al valor militare.” 2
Nulla di simile, nessuna partecipazione popolare di tale ampiezza alla lotta si era mai verificata nella storia d’Italia. E il contributo decisivo della Resistenza italiana alla sconfitta del nazifascismo fu apertamente riconosciuto anche dalle autorità militari Alleate:
Video: Senza tregua – Intervista ai partigiani “Visone” Giovanni Pesce e Onorina Brambilla
Per saperne di più:
Sul sito ANPI i principali riferimenti bibliografici dell’evoluzione della ricerca sulle stragi di civili commesse dall’esercito tedesco durante l’occupazione in Italia.
D. Conti, Guerriglia partigiana a Roma, Roma, Odradek, 2016.
AA. VV., La resistenza al fascismo. Scritti e testimonianze, a cura di M. Milan e F. Vighi, Milano, Feltrinelli, 1962.
Un sabotatore. Giorgio Labò, Prefazione di Lionello Venturi, testimonianze di suo padre, di Giulio Carlo Argan, Franco Calamandrei, Alberto Lattuada, Antonello Trombadori, Milano, La Stampa Moderna, 1946 (reprint a cura di Francesca Romana Stabile, Roma, Grafica Editrice Romana, 2024).
1 Cfr. Cesare De Simone, Roma città prigioniera. I 271 giorni dell’occupazione nazista (8 settembre ’43- 4 giugno ’44), Milano, Mursia, 1994.