Il 12 dicembre 1969, alle ore 16:37, una bomba confezionata con 7 kg di tritolo esplode nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana, a Milano, una strage che costò 17 morti e 88 feriti.
La strage alla Banca dell’Agricoltura fu la “Strage di Stato” che inaugurò la “strategia della tensione”.
Immediatamente le indagini furono indirizzate con una preordinata regia verso gli anarchici.
Nei giorni successivi alla Strage Pietro Valpreda fu additato come colpevole in base alla testimonianza del tassista Cornelio Rolandi, successivamente scomparso per disturbi cardiaci, che dichiarò di avere portato col suo taxi in quella piazza un uomo «molto somigliante a Valpreda» il quale sarebbe sceso con una valigetta per poi tornare sul taxi senza di essa. Furono arrestati anche altri cinque aderenti al Circolo anarchico 22 marzo.
Materiali: l’intervista a Focus del giudice Salvini
L’intervista a Focus del giudice Salvini, nella quale il magistrato chiarisce l’intera vicenda della strage: i moventi, gli autori, le connivenze, i depistaggi.
Giudice Salvini, nonostante non si sia arrivati alla definitiva condanna processuale di singole persone, Lei continua a essere un testimone della memoria storica su quei fatti. In che cosa consiste oggi questa memoria?
Tutte le sentenze su Piazza Fontana, anche quelle assolutorie, portano alla conclusione che fu una formazione di estrema destra, Ordine Nuovo, a organizzare gli attentati del 12 dicembre. Anche nei processi conclusi con sentenze di assoluzione per i singoli imputati è stato comunque ricostruito il vero movente delle bombe: spingere l’allora Presidente del Consiglio, il democristiano Mariano Rumor, a decretare lo stato di emergenza nel Paese, in modo da facilitare l’insediamento di un governo autoritario.
Come accertato anche dalla Commissione Parlamentare Stragi, erano state seriamente progettate in quegli anni, anche in concomitanza con la strage, delle ipotesi golpiste per frenare le conquiste sindacali e la crescita delle sinistre, viste come il “pericolo comunista”, ma la risposta popolare rese improponibili quei piani. Il presidente Rumor, fra l’altro, non se la sentì di annunciare lo stato di emergenza. Il golpe venne rimandato di un anno, ma i referenti politico-militari favorevoli alla svolta autoritaria, preoccupati per le reazioni della società civile, scaricarono all’ultimo momento i nazifascisti. I quali continuarono per conto loro a compiere attentati. Cercarono anche di uccidere Mariano Rumor, con la bomba davanti alla Questura di Milano (4 morti e 45 feriti) del 17 maggio 1973, reclutando il terrorista Gianfranco Bertoli.
Perché non si è arrivati ad avere sufficienti prove sulle responsabilità personali nell’attentato di piazza Fontana?
L’assoluzione definitiva è stata pronunciata con una formula che giudica “incompleto, ma non privo di valore, l’insieme delle prove raccolte”. Sono esistiti in questa vicenda pesanti depistaggi da parte del mondo politico e dei servizi segreti del tempo. Però non è del tutto esatto che responsabilità personali non siano state comunque accertate nelle sentenze. Almeno un colpevole c’è, anche nella sentenza definitiva della Cassazione del 2005: si tratta di Carlo Digilio, l’esperto in armi e in esplosivi del gruppo veneto di Ordine Nuovo, reo confesso, che fornì l’esplosivo per la strage ed il quale ha anche ammesso di essere stato collegato ai servizi americani.
Digilio ha parlato a lungo delle attività eversive e della disponibilità di esplosivo del gruppo ordinovista di Venezia, di cui faceva parte Delfo Zorzi, assolto poi per la strage per incompletezza delle prove nei suoi confronti, in quanto la Corte non ha ritenuto sufficienti i riscontri di colpevolezza raggiunti. Né sono bastate le rivelazioni di Martino Siciliano, che aveva partecipato agli attentati preparatori del 12 dicembre insieme a quel gruppo, con lo scopo di creare disordine e far ricadere le accuse su elementi di sinistra. Ma nelle tre sentenze risultano confermate le responsabilità degli imputati storici di Piazza Fontana, pure loro di Ordine Nuovo: i padovani Franco Freda e Giovanni Ventura. Essi però, già condannati in primo grado nel processo di Catanzaro all’ergastolo, e poi assolti per insufficienza di prove nei gradi successivi, non erano più processabili. Perché in Italia, come in tutti i paesi civili, le sentenza definitive di assoluzione non sono più soggette a revisione.
Ci può spiegare meglio? Intende dire che Freda…
Sì, se Freda e Ventura fossero stati giudicati con gli elementi d’indagine arrivati purtroppo troppo tardi, quando loro non erano più processabili, sarebbero stati, come scrive la Cassazione, condannati.
Può fare un esempio?
L’elemento nuovo, storicamente determinante, sono state le testimonianze di Tullio Fabris, l’elettricista di Freda che fu coinvolto nell’acquisto dei timer usati il 12 dicembre per fare esplodere le bombe. La sua testimonianza venne acquisita solo nel 1995. Un ritardo decisivo e “provvidenziale” per gli imputati. Fabris nel 1995 descrisse minuziosamente come nello studio legale di Freda, presente Ventura, furono effettuate le prove di funzionamento dei timer poi usati come innesco per le bombe del 12 dicembre. Le nuove indagini hanno anche esteso la conoscenze dei legami organici fra i nazifascisti, elementi dei Servizi Segreti militari e dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, diretto all’epoca da Federico Umberto D’Amato. E c’è di più: il senatore democristiano Paolo Emilio Taviani, in una sofferta testimonianza resa poco prima di morire e purtroppo non acquisita dalle Corti milanesi, ha raccontato di aver appreso che l’avvocato romano Matteo Fusco, agente del SID, il Servizio Informazioni della Difesa, il pomeriggio del 12 dicembre del 1969 era in procinto di partire da Fiumicino alla volta di Milano in quanto incaricato, seppure tardivamente, di impedire gli attentati che stavano per avere conseguenze più gravi di quelle previste. La missione, non riuscita, confermata dalla testimonianza della figlia ancora vivente dell’avvocato Fusco, che aveva ben presente il rammarico del padre negli anni per non avere potuto evitare la strage, indica ancora una volta che la campagna di terrore non fu solo il parto di un gruppetto di fanatici, ma che a Roma almeno una parte degli apparati istituzionali era a conoscenza della preparazione degli attentati e che cercò solo all’ultimo momento di ridurne gli effetti. Dopo l’esito tragico, si adoperarono per calare una cortina fumogena sulle responsabilità a livello più alto.
La frammentazione delle prove nei tanti processi ha favorito questa cortina fumogena?
Indubbiamente. Ma la ricostruzione dell’accusa, senza effetti, ripeto, su persone non più processabili, è che il gruppo di Freda acquistò valige fabbricate in Germania in un negozio di Padova e comprò i timer, di una precisa marca, che mise nelle valige insieme con l’esplosivo, che probabilmente il gruppo veneziano disponeva di propri depositi. Alcune valige furono portate a Roma e consegnate agli esponenti di Avanguardia Nazionale che effettuarono gli “attentati minori”. Altri militanti invece raggiunsero Milano con altre due valige esplosive, attesi dai referenti locali di Ordine nuovo. Una bomba alla Banca Commerciale di piazza della Scala non esplose, l’altra, alla Banca dell’Agricolura, provocò la strage. Gli obiettivi di Roma e Milano potevano tutti essere interpretati in chiave anti-capitalista e antimilitarista in modo da fare ricadere la colpa sugli anarchici e più in generale sulla sinistra.
Tre giorni dopo la strage un anarchico, Giuseppe Pinelli, volò dal quarto piano della Questura di Milano. Un altro anarchico, Pietro Valpreda, fu incarcerato e indicato come il “mostro” nelle prime pagine dei quotidiani e nei telegiornali. Quando non si pensava nemmeno lontanamente a Internet un gruppo di giovani, in soli sei mesi, scambiandosi informazioni, mise in piedi una contro-inchiesta collettiva raccolta poi in un famoso libro, “La strage di Stato”. Che valore ebbe questo loro impegno per le indagini giudiziarie successive?
Fu davvero profetico e quasi propedeutico rispetto agli accertamenti giudiziari avvenuti dopo. Soprattutto, ebbe il merito di smontare rapidamente la pista anarchica, fabbricata apposta da infiltrati di Ordine nuovo, di Avanguardia Nazionale e dei servizi segreti per depistare le indagini e mettere sotto accusa di fronte all’opinione pubblica gli anarchici e, per estensione, gli studenti contestatori e le forze di sinistra impegnate nelle lotte sindacali di quel periodo, preparando così il clima per la svolta autoritaria. Che non ci fu, anche perché la grande stampa, dopo un po’, fece suoi molti temi di quel libro inchiesta.
Quali conclusioni si devono trarre da questa storia?
La strage di Piazza Fontana non è un mistero senza mandanti, un evento attribuibile a chiunque magari per pura speculazione politica. La strage fu opera della destra eversiva, anello finale di una serie di cerchi concentrici uniti se non proprio da un progetto, da un clima comune (come disse nel 1995, alla Commissione Parlamentare Stragi, anche Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Aldo Moro). Nei cerchi più esterni c’erano forze che contavano di divenire i “beneficiari” politici di simili tragici eventi. Completando la metafora, i cerchi più esterni, appartenenti anche alle Istituzioni di allora, diventarono subito una struttura addetta a coprire l’anello finale, cioè gli esecutori della strage quando il “beneficio” risultò impossibile poiché quanto avvenuto aveva provocato nel Paese una risposta ben diversa da quella immaginata: non di sola paura, ma di giustizia e di mobilitazione contro piani antidemocratici.
Si scatenò all’unisono un vero e proprio linciaggio mediatico che presentò Valpreda come «il mostro di piazza Fontana». Per “Il Secolo d’Italia”, quotidiano del MSI, Valpreda è «una belva oscena e ripugnante, penetrata fino al midollo dalla luce comunista»; per “Il Messaggero”: è «una belva umana mascherata da comparsa da quattro soldi»; su “La Nazione” si legge: «un mostro disumano»; per l’organo del PSU, “Umanità”: è «uno che odiava la borghesia al punto da gettare rettili nei teatri per terrorizzare gli spettatori»; su “Il Tempo” diviene «un pazzo sanguinario senza nessuno alle spalle».
Valpreda, totalmente estraneo ai fatti, finì in carcere per tre anni, prima di venire del tutto assolto nel processo a suo carico. Andò peggio a Giuseppe Pinelli, un ferroviere, già partigiano e animatore del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa.
Pinelli morì nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, quando il suo corpo precipitò da una finestra della questura di Milano, dove era trattenuto (oltre le 48 ore del fermo di polizia) «per accertamenti in seguito alla esplosione della bomba nella sede di piazza Fontana della Banca Nazionale dell’Agricoltura».
Nella questura raccontarono che Pinelli (il quale, come fu presto dimostrato, era del tutto estraneo alla vicenda) si era gettato di sotto: una sorta di ammissione di colpevolezza, dissero i media.
La vicenda, coperta da un patto omertoso, non fu mai ufficialmente chiarita.
Secondo una importante e accurata ricostruzione degli eventi che precedettero il 12 dicembre 1969 e la strage[1], la provocazione contro gli anarchici e la sinistra fu accuratamente preparata, con la diretta e decisiva partecipazione della grande stampa padronale e dei Servizi cosiddetti “deviati”, per costruire l’immagine di una sinistra eversiva e sanguinaria, che rendeva necessaria una svolta autoritaria per ristabilire l’ordine.
Due bombe furono fatte scoppiare il 25 aprile, alla Fiera di Milano e all’Ufficio Cambi della Banca Nazionale delle Comunicazioni alla Stazione centrale di Milano. Meno di tre ore dopo, il Commissario Allegra (che ritroveremo nelle indagini su Piazza Fontana) scrive in un suo rapporto che i fatti «fanno presumere che gli attentati di cui sopra siano di provenienza anarchica»[2].
Tra l’8 e il 9 agosto 1969, su dieci treni furono collocati altrettanti pacchi esplosivi. Due fecero cilecca ma otto scoppiarono. Dodici furono i feriti, tutti in modo lieve. Nel 1982 una sentenza di condanna definitiva accerterà che di quelle bombe erano stati responsabili i fascisti Freda e Ventura. Gli anarchici milanesi fatti oggetto della provocazione scontarono comunque oltre due anni di carcere.
La verità emerse solo grazie al coraggio del giudice Antonino Scopelliti, che da PM smontò l’impianto accusatorio preparato della polizia milanese (anche con testimoni falsi e provocatori opportunamente imbeccati). Scopelliti, che si autodefinì “giudice solo”, sarà ucciso con due fucilate alla testa, mentre era in macchina privo di scorta.
Per saperne di più
- AA.VV, La strage di Stato, Roma, Savelli, 1970;
- P. Morando, Prima di piazza Fontana. La prova generale, Roma-Bari, Laterza, 2019.
- S. Ferrari, La strage di piazza Fontana, Roma, Red Star Press, 2019.
[1] P. Morando, Prima di piazza Fontana. La prova generale, Roma-Bari, Laterza, 2019.
[2] Ibidem, p.30.